Egitto, rivoluzione atto II – Cercasi alternativa
di Alessandra Vitullo
Precisamente un anno fa, l’allora Presidente Morsi annullava la sentenza della Corte Costituzionale che dichiarava illegittima la legge con la quale era stata eletta l’Assemblea del Popolo; in sostanza annullava lo scioglimento del Parlamento che un mese prima, quando Morsi ancora non era Presidente dell’Egitto, aveva permesso ai militari di assumere le funzioni legislative e quindi di poter decidere le modalità di voto per le vicine elezioni presidenziali. Successivamente Morsi sarebbe diventato presidente dell’Egitto, battendo per poco il candidato dell’esercito, Shafiq, e dopo aver invalidato la sentenza della Corte, avrebbe deposto i vertici militari: il capo di Stato maggiore Sami Anan e lo storico capo del Consiglio Supremo delle Forze Armate (Csfa), nonché Ministro della Difesa, il maresciallo Hussein Tantawi, che sarebbe stato sostituito con uno dei più giovani membri del Csfa, Abdel Fattah al-Sisi, lo stesso che la scorsa settimana ha letto l’ultimatum al Presidente.
A deporre Morsi, ora, sono stati i militari, quelli del regime Mubarak, gli stessi che fecero cadere il raìs nel febbraio 2011, e che guidarono il Paese nel seguente anno di transizione, sparando sulle persone che chiedevano che venissero indette nuove elezioni, su quella stessa gente che oggi i militari dicono di aver voluto proteggere dal secondo faraone.
Si moriva in Egitto durante i giorni della grande manifestazione dei Tamarod, si muore oggi in Egitto negli scontri tra i sostenitori dei Fratelli musulmani e le opposizioni. Erano finiti in carcere il Presidente Morsi, insieme alla guida suprema dei Fratelli Musulmani, Mohammed Badie, e altri importanti vertici della Fratellanza, una storia che si ripete da Nasser, Sadat e Mubarak. Inutile ripetere che i militari sono i più importanti attori politici in un Paese che da 61 anni vive sotto un regime militare, altrettanto ripetitivo sottolineare quanto la Fratellanza sia radicata soprattutto nella società rurale, attraverso l’assistenzialismo, l’educazione, la sanità, e quanto il suo vivere nell’illegalità e nella persecuzione politica, non abbia certamente giovato alla formazione di una classe dirigente capace di poter adempiere improvvisamente al ruolo di primo Presidente egiziano democraticamente eletto.
Incapacità, incompetenza, faziosità, fanatismo, sono tanti gli elementi della politica di Morsi che gli hanno fatto commettere un errore dietro l’altro durante il suo primo anno da Presidente di un paese che l’ha eletto tanto democraticamente, quanto precariamente, con un popolo ormai consapevole della forza della piazza, ma non altrettanto cosciente del suo progetto politico. Prima Kiffaya e il Movimento del 6 Aprile, oggi i Tamarod, hanno dimostrato quanto la voglia di giustizia sociale possa far cadere regime e governi, democratici o meno che siano, ma che forse senza una vera alternativa politica rischiano di far cadere anche il Paese in un vortice dove ad aumentare sono solo la violenza e la povertà.
L’unico fuori programma dei militari è forse la composizione del governo ad interim , che vede la nomina alla presidenza, non di un militare, ma di Adli Mansour, presidente della Corte Suprema Costituzionale, e la proposta, anche se sempre più scartata, di incaricare come premier ad interim, Mohamed El Baradei, premio Nobel per la Pace ed ex Presidente dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, l’uomo che l’Occidente desidera e aspetta fin dalla caduta di Mubarak.
Ci ritroviamo così di fronte allo stesso interrogativo di due anni fa, ma forse ancora più difficile da sciogliere: quale strada per un Egitto che si ribella anche al suo Presidente eletto democraticamente? Oltre ai facili entusiasmi di chi si rallegra di un colpo di stato militare, pur di vedere il fallimento dell’Islam politico, forse alcune risposte sulle quali bisognerebbe riflettere vengono dello storico Massimo Campanini, rilasciate, il giorno dopo la caduta di Morsi, ai microfoni di Radio Popolare Milano:
La crisi egiziana decreta il fallimento del progetto dei Fratelli musulmani o mette in discussione le cosiddette “primavere arabe”?
Non credo che la caduta del regime di Morsi – con tutti gli errori compiuti – sia la fine dell’islam politico. Innanzitutto perché c’è un forte radicamento dell’islam nella coscienza popolare, nei popoli arabi, soprattutto in quello egiziano. In secondo luogo, proprio in seguito alle cosiddette “primavere arabe”, si stanno sviluppano nuove forme di pensiero politico. Per esempio lo sheikh Yusuf Al Qaradawi, uno degli intellettuali della Fratellanza musulmana, ha elaborato il concetto moderno di “stato civile”, per cui lo stato islamico non sarebbe un sistema teocratico, ma – appunto – uno stato civile basato sul diritto. Questo pensiero non viene messo in discussione dal fallimento dell’esperienza del regime di Morsi. Questa vivacità nell’islam politico promette un futuro non completamente oscuro.
Ritiene che il golpe stabilizzerà l’Egitto?
Il golpe potrebbe stabilizzare l’Egitto, però è una stabilizzazione garantita dai carri armati. Come con Mubarak, come con Sadat. Positiva la democrazia di base, pessima cosa se questa democrazia di massa ha bisogno dei fucili per affermarsi.
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