Siria: la guerra delle contraddizioni
di Azzurra Petrungaro
Irbin, Jobar, Zamalka, Ein Tarma. Quartieri della parte orientale di Damasco. Aree sottratte al controllo del regime di Assad. È l’alba del 21 agosto scorso, quando vengono travolti da una pioggia di missili che ne falcidia la popolazione. Ancora. Le fonti vicino ai ribelli non hanno nessun dubbio: si tratta di un’azione ordinata dal Presidente siriano, che si differenzia dal semplice bombardamento, per l’uso massiccio di armi chimiche. Le stime degli organi di informazione vicini all’opposizione parlano di più di 1.400 vittime. Centinaia di corpi distesi, affiancati, avvolti in lenzuoli bianchi, ricoprono le vie della periferia est di Damasco. Dal giorno successivo all’attacco si susseguono in rete le immagini e i video che i dissidenti hanno reso disponibili online, per testimoniare le conseguenze di un’aggressione portata a termine attraverso l’utilizzo di gas letali. Durante le stesse ore la stampa internazionale si mette in moto per verificare l’effettiva oggettività della versione riportata dai ribelli. Il governo siriano nega e appoggiato dalla Russia rimbalza la colpa agli stessi oppositori.
Sono passate circa due settimane. Dopo più di due anni di feroci combattimenti, non è la prima volta che giungono notizie di attacchi chimici in territorio siriano. Ma stavolta è diverso. L’attribuzione di colpa, probabilmente, non potrà mai avvenire con assoluta ed inequivocabile certezza. Ma poco importa. Il Governo statunitense è giunto alla conclusione che Bashar al-Assad debba essere ritenuto l’unico responsabile dell’accaduto. Da questo assunto, la conseguente dichiarazione di un necessario intervento militare in Siria da parte del Presidente Obama.
Centomila morti. Un numero indicativo, impreciso, approssimativo. Questa è la cifra che rimbalza da articolo a articolo, questi i morti orientativamente prodotti dal conflitto interno al paese di Assad. Ma non sono mai sembrati abbastanza, a nessuno. Sono esattamente due anni e mezzo che l’opinione pubblica chiede a gran voce un intervento delle potenze internazionali per porre fine alla mattanza della popolazione siriana. I grandi della pianeta si indignano, criticano, puntano il dito, ma non agiscono. Informare dall’interno del Paese è complicato e poi, alla fine, sono sempre le solite case di mattoni distrutte, le immagini sfocate di qualche conflitto a fuoco minore, il classico fumo di macerie che sporca l’ennesimo cielo mediorientale. Non fanno notizia, non impressionano, non fanno nemmeno più indignare. Dati i delicati equilibri in gioco, rimane più comodo spegnere i riflettori, smorzare i toni, aggiornare in modo blando il pubblico con qualche nuovo eccidio commesso qua e là.
In questo inizio di settembre però, la presidenza Usa si è trovata faccia a faccia con i suoi incubi. Obama ha glissato l’enorme questione mediorientale durante la sua intera permanenza alla Casa Bianca, tentando strenuamente di tirare le redini del suo percorso politico, al fine di condurre il suo mandato lungo la linea retta della coerenza. Priorità estrema alle questioni interne, la crisi, il lavoro. Un’azione di guerra lo avrebbe accomunato al suo predecessore, dal quale, durante la prima campagna elettorale, si era voluto così nettamente differenziare. Eppure ci risiamo. Con ironici e amari rivolgimenti storici. Bush e il sospetto della presenza di armi chimiche in Iraq, Obama e la certezza del loro utilizzo in Siria. Uno lo utilizzò come pretesto, l’altro lo aveva posto qualche tempo fa come punto di non ritorno, come gesto di fronte al quale l’America si sarebbe trovata costretta ad intervenire.
Da una parte la Siria di Assad, l’Iran e gli Hezbollah libanesi, spalleggiati da Mosca e Pechino, dall’altra i ribelli, l’Arabia Saudita, Israele e Turchia. Su questo stesso fronte, Usa e Europa.
La domanda più ovvia e immediata è una sola. Perché proprio ora? Perché è stato necessario voltare lo sguardo per più di 24 mesi? I 1.400 morti del 21 agosto, sono valsi più delle centinaia di migliaia già accumulati. È tristemente chiaro che il destino della popolazione siriana non è argomento di interesse per nessuno. L’attacco che Obama propone è di tipo “limitato”, già di per sé una contraddizione in termini. L’obiettivo non è spodestare Assad, ma indebolire la sua capacità d’azione, colpendo siti d’interesse militare. Facciamo la guerra, ma la facciamo piano e solo un po’.
Dal G20 di San Pietroburgo intanto, arrivano notizie di un inevitabile gelo tra Putin e Obama, ognuno arroccato sulle sue posizioni. Mosca non arretra e conferma il suo no all’intervento. Il Presidente Usa si dichiara dispiaciuto, lui proprio no, una guerra sul suo curriculum da Presidente non ce la voleva. In Europa intanto, Obama ha raccolto solo il sicuro interventismo francese. Ora si aspetta il parere del Congresso.
E se l’Onu si mostrasse contraria, Obama avrebbe la forza di agire lo stesso? Se confermasse il proprio consenso invece, il nostro Paese si troverebbe nelle condizioni di dover intervenire, date le dichiarazioni precedenti del Ministro Bonino.
Quali scenari si aprirebbero in caso di un prossimo conflitto? C’è chi paventa uno scontro di portata mondiale. In questi due anni e mezzo in cui il popolo siriano è stato completamente abbandonato, c’è stato tutto il tempo di intessere accordi, alleanze e collaborazioni che espandono la loro rete a livello globale. È tardi per intervenire, per rimediare agli orrori accaduti, ma ancora si usano la cautela e le buone maniere. Una vera presa di posizione contro Assad e lo smantellamento della sua dittatura, non è stata ancora presa da nessuno e nel frattempo in Siria si continua a morire.