Ripensare l’Islam: da Dante alle primavere arabe, attraverso l’opera di E.Said
di Alessandra Vitullo
Rileggere l’opera di Edward Said, Orientalism, a trent’anni di distanza dalla sua pubblicazione e in seguito allo scoppio delle primavere arabe, questo è stato il tema centrale della due giorni di interventi organizzata dalla rivista Reset Doc, all’Università di Roma 3 e al Forum Austriaco di Cultura Roma, lo scorso 8 e 9 novembre.
Rileggere oggi Said per comprendere soprattutto noi occidentali e scoprire le lenti attraverso le quali abbiamo sempre guardato ad Est. Orientalism, pubblicata nel 1978, ci racconta delle immagini, dei costumi, delle tradizioni, tramandateci, dalla classicità fino ai giorni in cui l’opera vide la luce, dalla cultura occidentale in particolare sul mondo arabo; di come l’oriente sia sempre stato l’oggetto passivo della sua storia e di come questo abbia contribuito oggi a consolidare una serie di stereotipi e prototipi attraverso i quali automaticamente guardiamo a sud-est.
L’oriente ha contribuito, per contrapposizione, a definire l’immagine, l’idea, la personalità e l’esperienza dell’Europa (o dell’Occidente). Nulla si badi, di questo Oriente può dirsi puramente immaginario: esso è una parte integrante della civiltà e della cultura europea persino in senso fisico [Said, 1991]
Dal 28esimo canto dell’Inferno di Dante, nel quale Maometto viene dilaniato in due metà, colpevole di scisma ed eresia, alla filmografia americana degli anni Settanta, fatta da orde di mori a cammello che seminano morte e distruzione ovunque passino, tutto entra a far parte della lunga scia dell’orientalismo, termine usato da Said con un evidente accezione negativa.
L’orientalista, figura nata in epoca napoleonica, che avrebbe dovuto studiare l’Oriente, in realtà ha amplificato, dandole valenza scientifica, una serie di stereotipi sulla civiltà islamica, considerata comunemente come selvaggia, primitiva, irrazionale, indomabile, etc. La figura dell’orientalista viene oggi sostituita da quella degli area specialist, che piuttosto che studiosi, sono consulenti governativi che raccolgono informazioni sull’oriente conformemente alle richieste delle varie amministrazioni occidentali. Con manifesta e dichiarata superiorità, da sempre l’Occidente si è investito del ruolo di dominatore ed educatore del mondo arabo e proprio questo, per Said, ha impedito una vera conoscenza della cultura islamica e un incontro con questa.
Quanto incide oggi questa eredità di rappresentazioni sull’Islam nella nostra cultura e sulla nostra lettura di ciò che accade ad oriente dei nostri confini? Le istanze di democrazia sollevate dai popoli arabi negli ultimi due anni, hanno cambiato il nostro modo di parlare dell’Islam? A questi interrogativi hanno cercato di rispondere gli interventi di intellettuali come Massimo Campanini, Giancarlo Bosetti, Iain Chambers, Hassan Hanafi, Giuliano Amato, etc.
Per il giornalista Mohamed Haddad la ricezione dell’opera di Said è un autodafé dell’Occidente, che riconosce i suoi errori interpretativi sull’Islam, ma ormai superata con la fine del colonialismo. Per il filosofo Hassan Hanafi bisogna cominciare a parlare di occidentalism, per studiare finalmente l’occidente come oggetto della storia, e quindi non più come modello universale, si potrà così finalmente parlare di Occidentology e non solo di Islamology. Per il professore Adname Mokrani, l’orientalismo di cui parla Said ancora latita nella nostra cultura, a dimostrarcelo c’è la nomenclatura che abbiamo dato ai movimenti del Nord Africa, “primavere arabe”, definizione utilizzata solo da noi occidentali, memori delle esperienze dei popoli dell’est Europa (leggi Primavera di Praga), importata nei paesi arabi, che al contrario parlano di “rivoluzioni”.
Ma i non addetti ai lavori, come possono riscontrare nella loro esperienza quotidiana la validità della teoria di Said? Probabilmente nella rapidità con cui i media hanno annunciato il trionfo delle primavere arabe e come ora, altrettanto rapidamente, ne annunciano il declino. La svolta politica di questi popoli è stata accolta in occidente come un atteso avvicinamento tra le due culture, l’Islam d’improvviso non era più una massa indistinta di uomini barbuti e donne velate, ma era anche fatto da persone desiderose di democrazia, da movimenti civili, da giovani laureati, da cyber dissidenti… Poi, l’11 settembre di quest’anno, esce su youtube Innocence of Muslims, un ridicolo e volgare film sulla vita di Maometto, che solleva delle proteste in tutto il mondo musulmano, proteste che ci sarebbe da scommettere si sarebbero scatenate anche nella fervente comunità cristiana, qualora ad essere oltraggiata fosse stata la la figura di Cristo; purtroppo come sappiamo, in Libia, le manifestazioni pilotate dai gruppi islamisti più estremi, provocarono la morte dell’ambasciatore statunitense, Chris Stevens. E così il giorno successivo, l’intero mondo musulmano ripiomba nel Medioevo. Sui nostri giornali già si parla di inverno arabo, di fallimento di una rivoluzione, di ritorno del terrorismo, di minaccia araba. Vengono nuovamente ristabilite le dovute distanze tra noi e loro. Tra noi esportatori di democrazia e loro inguaribili, fanatici, esaltati, muslims.
Per chi fosse interessato a seguire il dibattito, l’appuntamento è per oggi pomeriggio alle 17.30, presso l’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, con il professore Michael Walzer, che parlerà di democrazia, pluralismo, sinistra e il rapporto tra libertà, individuo e comunità, nel dialogo, raccolto nell’opera Conversazione con Michael Walzer, con Ramin Jahanbegloo, l’intellettuale iraniano esiliato dal regime dei mullah