Siria: la difficoltà di informare, la facoltà di non informare
di Alessandra Vitullo
“Per un giornalista la Siria è attualmente il Paese più pericoloso da coprire”, scrive Lorenzo Trombetta in uno dei suoi articoli (Arab Media Report), dedicati allo stato dell’informazione sulla guerra in Siria. Qui, in due anni di conflitto, 27 giornalisti hanno perso la vita, una decina sono stati rapiti e tra questi, di quattro, si sono completamente perse le tracce.
Fare il giornalista in Siria non è solo un mestiere pericoloso, ma è anche un lavoro ai limiti dell’impossibile. Solo per poter entrare a Damasco è necessario un visto d’ingresso governativo, per nulla facile da ottenere e che permette di visitare solo alcune specifiche zone, per un periodo di tempo limitato (massimo 10 giorni). Ai giornalisti senza visto non resta, quindi, che entrare in Siria illegalmente, a loro completo rischio e pericolo, o affidarsi alle fonti indirette.
Inutile fare riferimento alle notizie dell’agenzia stampa di Stato, Sana e agli altri organi del regime, che svolgono ormai solo un lavoro di propaganda; come del resto bisogna in continuazione verificare anche le notizie che provengono dall’altro fronte, quello dell’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria, Ondus, al quale fa riferimento soprattutto France Press, che a sua volta viene ripresa da numerosi giornali europei, compresi i nostri, ma che resta un sito gestito da un dissidente del regime di Assad, Usama Sulayman, esiliato in Gran Bretagna.
In un’informazione polarizzata tra Ondus e media del regime, il buon giornalista deve quindi anche sapersi districare anche tra i dati che provengono dai Comitati di coordinamento locali, i quali aggregando notizie provenienti dalle zone colpite dalle violenze, solidali con la rivolta; sia tra quelli che di tutta risposta diffondono su Facebook le località rimaste fedeli al regime.
La tendenza dei media occidentali a dare maggior credito alle notizie che giungono dal fronte anti-Assad ha, infatti, a volte mistificato la realtà del conflitto, come racconta, il fotoreporter Alessio Romenzi, sempre a Lorenzo Trombetta, nel secondo articolo su Siria e informazione: “Gli attivisti siriani non sono dei professionisti dell’informazione e stando all’interno della Siria mi sono reso conto di come spesso le notizie date dagli attivisti siano gonfiate rispetto a quel che avviene sul terreno. Ad Aleppo, ad esempio, ci venne raccontato che in un’esplosione erano morte trentacinque persone. Quando siamo andati sul posto abbiamo scoperto che le vittime erano tre. Mi sono capitati moltissimi episodi del genere».
Ed è in questo violento e complicato scenario che sono stati sequestrati, no, trattenuti, lo scorso 5 aprile, i quattro giornalisti italiani, nel nord della Siria, da un gruppo di lealisti, no, da dei ribelli, no, dall’Esercito libero siriano, no, da degli islamisti di Al-Qaeda. In seguito all’iniziale confusionario annuncio del “fermo” di Amedeo Ricucci, Susan Dabbous, Andrea Vignali e Elio Colavolpe, sulla notizia è calato immediatamente un assordante silenzio stampa di tutte le maggiori testate di informazione italiane, silenzio che doveva permettere alla Farnesina di svolgere senza complicazioni il proprio lavoro. Ironia vuole che i quattro giornalisti si trovassero in Siria proprio per realizzare un documentario per il programma Rai, La storia siamo noi, dal titolo “Silenzio, si muore”. Il “fermo” sembrerebbe essere scattato a causa di alcune riprese fatte a dei siti militari sensibili e che avrebbero, quindi, fatto scambiare i quattro giornalisti per spie.
L’informazione che ha preferito non svolgere il suo lavoro, ci ha però lasciato con una serie di interrogativi. Innanzitutto quali sono state le differenze che hanno portato la Farnesina ha definire “fermo”, piuttosto che “sequestro”, quello dei giornalisti italiani? Inoltre, quali sono state le condizioni del rilascio? Del resto, anche dopo la liberazione, le dichiarazione del Primo ministro Monti, che si è limitato a ringraziare l’Unità di crisi della Farnesina, sono rimaste fedeli alla linea elusiva della stampa.
Un riserbo che da una parte è sembrato voler tutelare anche coloro che l’Europa ha scelto come unici interlocutori, i ribelli, ma che ormai da un po’ di tempo hanno cominciato a mostrare il loro lato più feroce.