JailHouseRock: un radio-giornale che dà voce ai detenuti. Intervista a Susanna Marietti
di Lucia Grazia Varasano
Un’emittente radiofonica indipendente, Radio Popolare, una trasmissione dal nome di per sé eloquente, JailHouseRock, due redazioni allestite in due diversi penitenziari dislocati geograficamente – una a Roma e l’altra a Milano: sono loro i principali attori del progetto approvato dal Ministero della Giustizia che ha dato vita al primo giornale radio delle carceri italiane. La voce diretta dei detenuti-giornalisti di Roma Rebibbia Nuovo Complesso e di Milano Bollate, è ospitata all’interno della trasmissione radiofonica “JailHouseRock, suoni, suonatori e suonati dal mondo delle prigioni”, scritta e curata da Susanna Marietti e Patrizio Gonnella, rispettivamente Coordinatrice nazionale e Presidente dell’Associazione Antigone. Il Grc è in onda il lunedì su Roma dalle 21 alle 22 e 30 e in differita su Radio Popolare Milano e Radio Popolare Salento tutte le domeniche alla stessa ora.
In ogni puntata, storie di musica e musicisti che hanno vissuto sulla loro pelle l’esperienza del carcere, da Bob Dylan a Roberto Vecchioni, che s’intrecciano a storie di vita quotidiana, direttamente raccontate dai detenuti, un mix d’informazione e denuncia, un rifugio dal sensazionalismo esasperato. È dal carcere quotidiano che nasce Il Quotidiano dal Carcere, sullo sfondo della musica che come la rete non conosce confini, le parole con la loro forza trafiggono le sbarre e il muro di silenzio che le circonda. La comunicazione diventa il bisogno di evasione, la necessità d’informare e grazie a questo connubio abbiamo assistito alla nascita di blog e giornali dal carcere. È da qui che siamo partiti per raccontare assieme a Susanna Marietti l’esperimento del primo giornale delle carceri italiane.
Come è nata l’idea del primo giornale radio?
Da oltre un anno Radio Popolare manda in onda una nostra trasmissione dal titolo JailHouse rock. Parliamo di musica rock, ma parliamo anche dei problemi delle carceri italiane. È un modo per riuscire a raggiungere, con i nostri temi carcerari, un pubblico meno specialistico di quello che usualmente ci segue. Avendo a disposizione un simile contenitore, abbiamo pensato di provare a dare voce ai detenuti stessi. Voce nel senso concreto del termine: non carta e penna, ma voce. Nessuno lo aveva mai fatto prima. Da tanti anni con Antigone tentiamo di raccontare il carcere pur senza averlo mai abitato, e oggi finalmente lo facciamo raccontare da chi lo vive quotidianamente.
Come funziona e in cosa consiste il lavoro dei detenuti-giornalisti?
Due redazioni composte interamente da detenuti lavorano all’interno del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso e di quello milanese di Bollate. La prima si è costituita appositamente allo scopo, la seconda fa capo alla redazione che già curava il giornale Carte Bollate. I detenuti, pur provenienti da reparti differenti, si incontrano settimanalmente in una vera e propria riunione di redazione. Propongono le notizie da mandare in onda, le selezionano, le scrivono e, con le loro voci, le registrano. Il file audio viene portato all’esterno del carcere e spedito a noi da educatori o da volontari.
Dai dati dell’ ultimo rapporto “Prigioni Malate” è stato evidenziato quanto siano scarni i fondi destinati ai progetti sociali, che invece sono fondamentali per uscire dall’ottica “pena uguale punizione”, ed entrare nell’ottica “pena uguale reinserimento”. È un campanello d’allarme il fatto che debba occuparsene un’associazione o una radio libera ed indipentente (come Radio Popolare) e non le istituzioni preposte?
Non darei a JailHouse rock e a Radio Popolare un ruolo particolarmente innovatore in questo senso. Da sempre il volontariato penitenziario, che opera diffusamente su tutto il territorio nazionale, si è fatto carico di portare avanti progetti che coinvolgono i detenuti. Sono numerosissime le attività che si svolgono nelle carceri per merito delle associazioni di volontari. Ma quando si delega a queste tutto il carico del cosiddetto trattamento dei detenuti, allora c’è davvero qualcosa che non va. L’istituzione deve sentirsi responsabile di ciò che riguarda il lavoro, l’istruzione, la formazione delle persone detenute, perché sono queste le vie principali per restituire alla società chi ha scontato una pena.
In carcere si suicida circa un detenuto ogni mille, fuori dal carcere circa una persona ogni ventimila. La detenzione spesso viene considerata la fine della vita, la prima cosa a morire sono i diritti umani, troppo spesso negati. Il fenomeno è imputabile anche all’ assenza di progetti nazionali di recupero?
Il suicidio è sempre frutto di una disperazione individuale, dunque non è facile fare generalizzazioni. Però, certo, i dati sono eloquenti. In carcere ci si suicida assai più che fuori. Tempo fa, l’allora sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri Luigi Manconi diffuse una circolare in cui invitava le direzioni a predisporre sezioni di accoglienza per nuovi giunti proprio per ridurre i rischi di suicidio. La fase iniziale della carcerazione è infatti quella in cui la disperazione è maggiore. Ma pochissimi istituti si sono adeguati. E l’ozio forzato, l’inutilità del periodo di detenzione, insieme alla lontananza dagli affetti e alle condizioni di degrado che si sperimentano oggi in carcere, accrescono la sofferenza al punto tale da poter spingere a un gesto che in alcuni casi si sarebbe potuto evitare.