Muore Simoncelli. Sicurezza a rischio in corsa? Sulle strade invece…
di Roberto D’Amico
Bravura, attenzione, destrezza, e sicurezza alcune volte non bastano. In certi casi la fatalità prende il sopravvento e non c’è precauzione che regga. Marco Simoncelli, campione ventiquattrenne della Moto Gp se ne è andato domenica 23 ottobre alle 10.56 (ora italiana) in seguito ad una brutta caduta sul circuito di Sepang, in Malesia, resa mortale dall’arrivo delle moto di Colin Edwards e Valentino Rossi che hanno investito il corpo di “Sic”, reso vulnerabile dalla perdita del casco.
Ieri a Coriano parenti, amici, compagni di gare, sportivi, tifosi e cittadini hanno dato l’estremo saluto ad un campione che brillava per simpatia, bravura tecnica e cattiveria agonistica. Sempre oltre, sempre al limite, pronto a tutto pur di vivere della sua passione più grande, le moto.
Il mondo dello sport, l’Italia intera, lo piangono ancora e continueranno a piangerlo a lungo. Lui che con quel capello indomabile aveva sconfinato nel mondo della televisione e della radio, ha posto nuovamente all’attenzione dell’opinione pubblica una domanda forse da troppo tempo ignorata: è giusto morire per uno sport? Sicurezza, norme, regole e precauzioni saranno mai sufficienti?
La risposta, stando ai fatti, sembra scontata. Vero è che la scomparsa di Sic arriva a pochissimi giorni da quella di Dan Wheldon, pilota di Indy Car morto in seguito ad un incidente sull’ovale di Las Vegas. Solo 13 mesi fa se ne andava un altro pilota di moto, stavolta di Moto 2, Shoya Tomizawa che ha perso la vita correndo il Gran Premio di San Marino a Misano.
Tornando ancora indietro nel tempo, ma quelli erano tempi in cui ancora esistevano i muretti e le barriere lungo la pista, arriviamo al 2003. Il 19 aprile, dopo 13 giorni di coma, se ne andava Daijiro Kato, pilota giapponese del Team Gresini finito brutalmente contro un muro di cemento.
Prima di quella tragedia l’ultimo incidente mortale in un motomondiale risaliva ad 11 anni prima. Nel 1992, durante il GP di Spagna, Noboyuki Wakai moriva per evitare uno spettatore nella corsia box. La mente degli appassionati di moto, quando giunge notizia di simili tragedie, corre però al lontano 1973. Era l’epoca del grande Giacomo Agostini e proprio due suoi grandi rivali, il finlandese Jarno Saarinen e il riminese Renzo Pasolini, restarono coinvolti in una caduta seguita da una carambola di moto e persero la vita.
Lo stesso Agostini, dopo la morte di Simoncelli, ha dichiarato: “Penso ai miei tempi. Correvamo con il casco a scodella in mezzo ai guard-rail. Quella di Marco è una tragica fatalità, non possiamo cercare colpe”.
Chi invece uscito vivo per miracolo da un incidente di questo calibro è Franco Uncini che nel 1983 ad Assen, durante una corsa di 500, cadde e fu investito dalla moto. “Penso che sia stato fatto molto per la sicurezza – ha dichiarato proprio Uncini, oggi responsabile della Commissione Sicurezza dell’Irta – purtroppo non abbiamo il potere di cambiare la fatalità. Siamo inermi di fronte ad un evento del genere”.
Per un modo di centauri che piange ce n’è uno che di certo non ride, anzi, rivendica più attenzione. I numeri che riguardano gli incidenti mortali su strada, che coinvolgono esclusivamente motociclisti, fanno davvero rabbrividire. Secondo le stime dell’Asaps (l’Associazione sostenitori amici Polizia Stradale) in dieci anni (dal 1998 al 2008) sono morti 14.293 centauri e 860.530 sono rimasti feriti. Nel 2009 il numero di vittime è di 1.249 e solo nei week end del 2011 si contano già 370 incidenti mortali.
Giordani Biserni, presidente dell’Asaps, ha invitato gli italiani a non cadere nell’inganno: “La pista rimane comunque il posto più sicuro per un motociclista. I soccorsi arrivano in 20-30 secondi e non 20-30 minuti e soprattutto ci sono delle regole che vengono rispettate. Serve una riflessione sulla pericolosità complessiva delle due ruote ma nelle strade c’è bisogno di interventi più mirati che nelle piste”.