Dall’Europa a Palazzo Chigi. Monti verso governo di emergenza
di Emiliana De Santis
Il severo monito, stavolta, è più forte che mai. Il Capo dello Stato ha diramato tre note in meno di trentasei ore: una per rendere note le dimissioni di Berlusconi, una per confermare che sono effettive e non soltanto “annunciate”, una per rassicurare l’Europa sulla capacità italiana di uscire dall’impasse. Perché questo è quello che i mercati ci hanno voluto dire con lo spread a 575 punti. Le cancellerie di mezzo mondo non credono più nell’Italia, non reputano affidabile né Silvio Berlusconi né il sistema politico che gli ruota intorno. Il tasso di interesse che cresce sui nostri titoli di Stato è nient’altro che un premio sul rischio per il loro acquisto, quindi aumenta in presenza di incertezza e di mancata trasparenza. I mercati vogliono rassicurazioni, ce lo ha detto anche la Merkel: “Il problema dell’Italia non sono le risorse o il pur enorme debito pubblico ma il caos politico”. Obama ha rincarato la dose.
Napolitano sta interpretando a pieno le prerogative che la Costituzione e, soprattutto, la contingenza, gli hanno conferito. È insieme Capo dello Stato, regista del futuro Governo, guida politica e faro istituzionale in un momento in cui la bussola sembra smarrita. In Italia non perdi mai totalmente né totalmente vinci, il sistema è strutturato per indurre al galleggiamento, al bilanciamento. Depretis non ha inventato il trasformismo, ha colto una tendenza. Ma chi non è pratico, non può capire. Deve essere per questo motivo che, anche i berluscones più acerrimi, in nottata, hanno consigliato al Capo di fare l’ultimo, decisivo passo: apporre il suo nome in calce al decreto di nomina a senatore a vita di Mario Monti. Frattini, riferiscono indiscrezioni da Palazzo Grazioli, avrebbe pronunciato la fatidica frase: “Caro Silvio, i mercati non comprenderebbero le elezioni”. Appoggiare dunque il Governo tecnico/di responsabilità nazionale di Monti, il burocrate europeista, direttore della Bocconi, internazionalmente stimato e politicamente insipiente. Meglio del vuoto, meglio del buio, della paralisi del Parlamento. Alle 19.17 di mercoledì 9 novembre Monti è senatore a vita. Lo stesso giorno, nell’anno domini 1989, cadeva il Muro di Berlino. In Italia, 22 anni dopo, cadeva il muro della finzione, picconato dalle liti della Lega, dal desio di Quirinale di Casini, dal bunga bunga, da Ruby Rubacuori e dall’antipolitica delle piazze.
Non c’è mai stato vero sentore di elezioni. Piuttosto di un traghetto verso le urne, a misure economiche varate e a legge elettorale cambiata. Certo, in parecchi sono rimasti a bocca asciutta, a cominciare dal Presidente del Senato, Renato Schifani, bravo a celare dietro un “Benvenuto” il mal di pancia di chi ha appena perso un’occasione. Suo, insieme a quello di Gianni Letta, il primo nome sbandierato da giornali e telegiornali in tempi che ora sembrano remoti, ma che non rimandano tanto in là nei giorni. Defilato Letta, l’ombra arguta e diplomatica del Cavaliere, il vertice di Palazzo Madama, si spendeva in dichiarazioni che più quirinalizie non si può. Non era il suo momento, per quanto stia giocando, insieme a Gianfranco Fini, astutamente a scacchi nella lunga partita della vita parlamentare.
Quello che ora ci serve è un non-politicante, un uomo non compromesso con l’attuale sistema partitico. Serve qualcuno che sia sufficientemente autonomo, autorevole e stimato per fare ciò che nessuno ha avuto a cuore di fare, ossia riforme dolorose e impopolari ma necessarie. Cambiamenti, tagli netti e mirati. Si prepara il terreno della rinascita, delle elezioni vere, dibattute e volute, non quelle delle campagne acquisti natalizie. L’Europa non è più dietro le Alpi. Con la nomina di Mario Draghi e la compravendita dei Btp italiani, l’Unione europea è dentro casa nostra e non si può ignorare, come è stato fatto con la lettera Trichet-Draghi e con l’ultimo questionario a firma di Olli Rehn. A Bruxelles vogliono modi, tempi, misure e concretezza. Il debito pubblico c’è, pure la ricchezza c’è. Lo dicono la nostra storia e il nostro patrimonio, di cui viene prevista una liquidazione per far cassa. Si potrebbe far cassa con una patrimoniale, e forse Monti siederà a Palazzo Chigi proprio per farne una. In nome dell’Italia, della Repubblica, del bilancio. Non siamo pronti per votare, il Paese é spaccato, sfiduciato e, soprattutto, senza speranza. Premono Bossi e Di Pietro per il ricorso alle urne, annunciando lo schieramento nei banchi dell’opposizione qualora il governo Monti dovesse diventare realtà.
La crisi ha portato in superficie i malumori di tutti, trasversali alle singole formazioni politiche, compattate dall’urgenza ma in fermento continuo negli orticelli degli interessi privati. Per un Bersani che fino a un mese fa chiedeva a Napolitano di sciogliere le Camere per andare a votare, oggi c’è un Partito Democratico che fa sponda a Casini e a tutto il Terzo Polo per evitare l’appuntamento elettorale e, con esso, la responsabilità di fare delle riforme che ne silurerebbero la desiderabilità politica per i prossimi venti anni. Di Pietro da battaglia al governissimo: le urne, a febbraio, di sicuro premierebbero la sua formazione e non cogliere il momento potrebbe essere fatale a un partito che basa spesso sulla chiacchiera ad alto volume il consenso popolare. Di fronte a questa crisi, però, non possono reggere le sgrammaticature populiste dell’ex pm di Mani Pulite. Vendola, dopo una prima esitazione, pare averne preso atto, e dalla Cina si dice pronto ad accettare l’esecutivo di responsabilità, augurandosi che sia breve, succinto e compendioso.
La Lega, via Bossi, fa sapere che non ci sta a garantire la maggioranza a un premier tecnico e a un governo di larghe intese: o Silvio o il voto. Il cerchio magico si stringe intorno a Reguzzoni, Maroni sta chiarendosi le idee e rumoreggia in sottofondo, consapevole di un mancata riconferma che potrebbe, tuttavia, giocare a suo favore. Pare che Mario Monti non abbia chiesto la sua permanenza al Viminale durante l’esecutivo di emergenza, il che significa che il ministro dell’Interno al momento è considerato personaggio forte, in grado di ostacolare certe scelte indispensabili. Maroni, quindi, si riprende Pontida, si riprende la folla dei Longobardi fieri e recalcitranti, e si avvia con Alfano verso il futuro della destra italiana. Per quale motivo bruciare entrambi ora? Berlusconi, con Forza Italia e con il Pdl, sottobraccio al Carroccio, è riuscito a sdoganare la destra come formazione di Governo. Riaccreditata, ringiovanita e svincolata dall’imprenditore padrone, la destra moderata e popolare potrebbe avere un certo successo nel paese dei Comuni e dei mille campanili, delle famiglie e del Vaticano, chiassoso quanto basta per trasformare buone idee progressiste in proclami di circostanza.
E il toto ministri suscita più entusiasmi del fantacalcio. Restano Franco Frattini, Altero Matteoli e Raffaele Fitto. Si danno per certi Giuliano Amato all’Interno e la discesa in campo di Enrico Letta (nipote di cotanto zio) al dicastero del Lavoro; si fa il nome di Lorenzo Bini Smaghi al Tesoro, neo dimesso dal board della Banca Centrale Europea, sempre che la docenza ad Harvard non lo obblighi a rinunciare in favore di Fabrizio Saccomanni o di Vittorio Grilli. Un esecutivo in parte tecnico e in parte politico. Soprattutto, un Governo del Presidente, su cui Napolitano, con un atto di coraggio che tutti speravano ma non si aspettavano, ha posto il sigillo, mettendo a tacere le polemiche quand’ancora erano in nuce. Alcuni mal pensanti fanno notare che, essendo stato appena nominato senatore a vita, Mario Monti riceverà lo stipendio come senatore e come Presidente del Consiglio. Somma di salari e somma di cariche. Sarà per breve tempo, di sprechi ce sono stati tanti e di gran lunga più inutili. Basta stabilire una data per le elezioni e nel frattempo governare con il più ampio consenso possibile per fronteggiare i conti, preparando il futuro politico e dando un segnale di serietà. Così ha fatto la Spagna, ne attestiamo il positivo risultato.
Ne siamo capaci? Arrivano dei momenti in cui la storia ci obbliga a fermarci e a riflettere. Ci insinua nelle mente un desiderio di virata, un salto di qualità. “L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani.”