Caporalato: lotta al lavoro nero. La Puglia in prima linea
di Carmen Vogani
Circa 550 mila lavoratori schiacciati nei diritti dal caporalato. Una forma di schiavitù che in Italia macchia la produzione agricola e il settore edilizio. Di questi, ben 400mila braccianti sono sottoposti ai ricatti del caporale e 60mila vivono in condizioni di assoluto degrado. Gli altri 150mila lavorano nel settore edilizio. Numeri che creano imbarazzo in un Paese civile, forniti dalla Flai e dalla Fillea Cgil per rilanciare la campagna “Stop Caporalato”, e presentati mercoledì 16 novembre a Roma dai tre segretari generali: Susanna Camusso (Cgil), Walter Schiavella (Fillea) e Stefania Crogi (Flai).
Caporalato e lavoro nero sono fenomeni geograficamente trasversali. Nel settore agricolo il lavoro nero incide per il 90% nelle regioni del Mezzogiorno, per il 50% nelle regioni del Centro, 30% nelle regioni del Nord.
CAPORALATO E MAFIE – Non è un problema “per immigrati”. Riguarda sia la manodopera straniera che quella italiana. Ai lavoratori viene chiesto (o imposto) di aprire una Partita Iva e di accettare contratti part-time che sono in realtà tempi pieni mascherati. Guai a dichiarare le effettive ore lavorate, o a ricorrere ai permessi in caso di infortunio non grave. Se poi ci scappa il morto, meglio mettere la testa sotto la sabbia. E risulta più facile se la vittima non ha la cittadinanza italiana: muore solo un invisibile. Uno dei tanti.
C’è qualcosa di più perverso e pericoloso dietro il caporalato. Negli ultimi anni si è assistito «a una forte espansione degli interessi delle organizzazioni criminali nel settore dell’edilizia» denuncia il sindacato. Rispetto al 2006 poi, nel 2008 l’aumento delle Partite Iva nelle costruzioni è stato del 208% e di queste la gran parte riguarda lavoratori stranieri. Perché nel mattone si ricicla denaro sporco. Ma anche quando le cose non dovessero stare così, abbattere i costi di produzione avvalendosi di manodopera a basso costo, fa gola. Soprattutto in tempi di crisi. Ecco quindi che costruttori senza scrupolo fanno la spesa al mercato degli immigrati. Al Nord, al Centro e al Sud.
IL REATO – Prima che la Cgil le dichiarasse guerra, la piaga dello sfruttamento illegale della manodopera era punita con una sanzione amministrativa di 50 euro. Ora il caporalato è reato. Tecnicamente si tratta di ‘intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro’ ed è inserito nel Codice Penale come art. 603-bis. Chi è riconosciuto colpevole, rischia la reclusione da 5 a 8 anni, oltre a sanzioni pecuniarie. Un percorso difficile, cui si è giunti dopo una campagna di sensibilizzazione condotta a tappeto sul territorio nazionale dalla Cgil Flai e Fillea. E sposato dalla senatrice Pd Colomba Mongiello che a luglio ha presentato un testo di legge poi passato nella Manovra di Ferragosto.
Ma non basta. «Per fermare il traffico di manodopera – ribadiscono Camusso, Schiavella e Crogi- occorre riconoscere la responsabilità dell’impresa e chi accetta di utilizzare manodopera illegale, procacciata da caporali». In sostanza, anche le aziende devono essere punite.
Non solo, occorre anche «prevedere una clausola di tutela per i lavoratori che denunciano, in particolare per i migranti sprovvisti di permesso di soggiorno». Sono questi un anello particolarmente debole della catena «che non possono denunciare i loro sfruttatori – spiegano Cgil, Fillea e Flai – perché, essendo clandestini, rischiano l’espulsione». Per questo, chiedono i sindacati «è importante garantire a questi lavoratori un permesso temporaneo, unico modo per sottrarli al ricatto dei caporali».
LA PUGLIA E LE BUONE PRATICHE – La Regione Puglia è al centro della lotta al caporalato. Merito sicuramente della Flai Cgil Puglia che quest’estate ha guidato i braccianti della Masseria Boncuri verso il riconoscimento dei loro diritti. Lo sciopero dei braccianti pugliesi non si dimentica; per la prima volta i lavoratori immigrati hanno condotto una vera e propria battaglia sindacale, senza cadere nella trappola dei disordini liquidati altrove (vedi i fatti di Rosarno) come questioni di “ordine pubblico”.
Con la legge regionale del 26 ottobre 2006 n.28, la Puglia si attesta il primato delle “buone pratiche” nel contrasto al lavoro non regolare. Lo ha confermato lo scorso 15 novembre con l’approvazione degli “indici di congruità”. Un importante intervento di politica economica diretto a penalizzare, e a rendere sempre più marginali, le imprese che fondano la propria competitività sulla riduzione illecita del costo del lavoro, contribuendo così ad orientare il flusso delle risorse pubbliche a favore delle aziende che garantiscono un corretto impiego della manodopera.
Una legge che “conviene” soprattutto alle imprese virtuose. Cerchiamo di spiegare perché. Esistono delle “Tabelle” dove viene indicato il fabbisogno di lavoro (espresso in ore) per ettaro-coltura e per capo di bestiame allevato. Stime effettuate sulla base di valutazioni tecniche e specifiche per la regione Puglia. I datori di lavoro sono tenuti a rispettarle. Se invece non lo fanno, costringendo dunque il lavoratore alla manodopera in nero, viene loro negato l’accesso ai finanziamenti pubblici. Rispetto agli indici di congruità definiti nelle Tabelle, il datore di lavoro può discostarsi del 20%. Se però si tratta di aziende con meno di due lavoratori dipendenti (in ragione del tasso di produttività estremamente ridotto) allora l’indice di scostamento massimo è pari al 35%.
Come si riscontrano le anomalie? Facciamo un esempio pratico: se per la lavorazione di un ettaro di terreno occorrono 80 giornate di lavoro, quasi la totalità di queste dovranno essere regolarmente registrate e retribuite. Al contrario, superati gli indici sopra citati del 20% e del 35%, scattano i controlli e le pene. Un altro punto a favore della legalità.