La Sapienza, “Una e indivisibile”. L’Italia secondo Giorgio Napolitano
di Emiliana De Santis
Costituzione italiana, art. 87: «Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale». Non serve ricordarlo ma è utile sottolinearlo. Di fronte alla crisi economica, politica e soprattutto morale e civica che stiamo attraversando, Giorgio Napolitano si è fatto simbolo umano e primo interprete di un concetto che noi italiani non amiamo molto: l’identità e la coesione nazionale. Per analizzarla in prospettiva storica, diffonderne gli assunti ed anche evidenziarne le problematiche, il Presidente ha scritto un libro, eloquente già nel titolo Una e indivisibile. Riflessioni sui 150 anni della nostra Italia, edito da Rizzoli.
La nostra Italia, degli italiani e di nessun altro. Lontana dalla stereotipo che gli altri le hanno cucito addosso. Parole misurate, in cui la categoria del nazionalismo ottocentesco viene superata dall’approccio pluralistico moderno e il tono pedissequo di alcune celebrazioni di rito lascia spazio al sano orgoglio dell’appartenenza. E Napolitano c’era, il 1 dicembre, davanti agli studenti dell’università romana La Sapienza per testimoniare questo impegno che quotidianamente caratterizza il suo operato. Ha lasciato che le pagine, fresche di stampa, parlassero da sole e ha commentato solo davanti ai giornalisti, con quelle poche, lucide espressioni di fiducia che pare solo lui avere. L’occasione è stata un invito del rettore della Sapienza, Luigi Frati, a discutere in una tavola rotonda i temi e le linee guida del volume, alla presenza di Giuliano Amato, del ministro Andrea Riccardi, di Paolo Mieli, presidente di Rcs libri e degli storici Giuseppe Galasso e Giovanni Sabbatucci. Appuntamento nell’Aula Magna del rettorato alle ore 11.30. Il cerimoniale è puntualissimo, entrano i corazzieri. È il segnale, tutti lo attendono.
LA CERIMONIA – Distinta dalla sobrietà delle occasioni ufficiali ma sotto sotto carica del brusio dei preparativi, la tavola rotonda ha rubato solo un’ora alle vite impegnate che ognuno di noi sembra avere. Nessuno si scompone, niente urla né striscioni all’ingresso. Una riverenza degna solo del più rispettato tra i nostri politici, tra i nostri cittadini, tra gli italiani. Apre il rettore Frati. Bel discorso, troppa retorica. Le tasse della Sapienza saranno anche invariate rispetto all’anno scorso ma c’è ancora tanta strada da fare sul cammino del merito e della solidarietà, evocata da lontano in una spirale di dati e di citazioni. Azzeccato “L’appello agli uomini liberi e forti” di Don Sturzo, bisognava forse aggiungere qualcosa dal discorso di Piero Calamandrei del 1955, quando ricordava al pubblico di studenti milanesi che: «E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli [..] che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3, Costituzione).
Gli ostacoli esistono, e in questa ammissione di verità sta il gran merito che Giuliano Amato, presa la parola, attribuisce allo scritto del Presidente. Amato parla di un libro dedicato a chi vuole approfondire la sua storia e a chi vuole trovarvi spunti di riflessione. Precisa che la nazionalità, alla luce degli odierni sviluppi, non è più etnocentrica e che una dignità va riconosciuta a tutti i lavoratori, a tutti gli italiani che con la fatica e con il sacrificio hanno fatto e continuano a fare l’Italia. «Si tratta – sottolinea il Presidente del Comitato per le celebrazioni del cento cinquantenario – di riconciliare un dilemma che appare insanabile: quello tra la rappresentazione che gli italiani hanno di se stessi e una cittadinanza troppo sbilanciata verso lo ius sanguinis». Quindi, insiste sulla necessità di rifiutare il concetto di Risorgimento come rivoluzione mancata <<perché l’Italia che esso ci ha dato era l’unica possibile. Non che non ci fossero altre strade, ma non erano praticabili».
Il ministro Riccardi, nel suo intervento, sentito ma verboso, evoca il divorzio tra politica e cultura e il senso di smarrimento che sperimentano gli italiani: dagli anni ’90 in poi, l’Italia ha ripensato poco la sua identità mentre veniva messa a contatto con la molteplicità derivante dalla globalizzazione e, perciò, con un’infinita serie di altre identità che la stanno gradualmente modificando. Non che questo sia sbagliato, tuttavia il vero incontro con l’altro avviene solo quando si è perfettamente coscienti del sé. Niente superbia, pura autostima. Sulla stessa scia i discorsi di Sabbatucci e Galasso, quest’ultimo con il merito di aver ribadito in che modo Napolitano ha saputo enucleare la vera questione che ci affligge e che non sta tanto nella mancanza delle risorse per uscire dallo stallo, quanto nella “volontà di essere all’altezza di se stessi”.
NAPOLITANO – Nei suoi passi lenti si vede il vissuto dell’uomo e l’esperienza del politico di lungo corso, dell’autorevolezza che si attribuisce al saggio. Scambio di sguardi con la Signora Clio, generosità di tempo con gli studenti che vorrebbero fare una foto insieme a lui, e una consapevolezza: contro gli scettici, contro le malelingue e gli sfiduciati, le celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia sono state le più belle, partecipate e spontanee di sempre. Gli italiani hanno risposto all’appello e l’hanno fatto con gioia, con entusiasmo, con il cuore che ci caratterizza. Tornando alle parole di Giuliano Amato: «L’identità non si nutre solo dei simboli del passato, ma soprattutto della percezione, della visione del futuro, in cui il sacrificio operato nel presente trova giustificazione per la costruzione del domani». Siamo tanti, siamo diversi, lo scontro è inevitabile e il dibattito necessario. Ma siamo, sempre e comunque, fratelli d’Italia.