Piano carceri: l’intervista a Patrizio Gonnella presidente di Antigone
di Lucia Grazia Varasano
Che le carceri italiane siano sovraffollate è un problema ormai risaputo. I detenuti sono attualmente 68 mila mentre i 206 istituti presenti sul territorio potrebbero contenerne regolarmente solo 45 mila, come mostrano i dati dell’ VIII Rapporto stilato dall’ Associazione Antigone, dal titolo “Prigioni malate”. Le norme inserite nel nuovo decreto del Ministro della Giustizia, Paola Severino, approvato dal Consiglio dei Ministri, cercano di porre delle soluzioni tampone all’ emergenza del sovraffollamento che andrebbe affrontata su lungo tempo in un’ ottica di riforma dell’ intero sistema penitenziario. È un’ emergenza che va di pari passo con la negazione dei diritti fondamentali dell’ uomo, su cui più volte è intervenuto anche il il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, stigmatizzando il gap tra norme e prassi indegna. Ma come è giunto questo sistema al collasso, cosa non ha funzionato nel precedente piano e quali sono le vie per poterne uscire, lo abbiamo chiesto a Patrizio Gonnella, Presidente dell’ Associazione Antigone.
Nel 2010 il piano carceri cercava di rispondere al problema del sovraffollamento con la costruzione e l’ ampliamento di strutture preesistenti. Ad oggi esistono degli istituti penitenziari costruiti, inutilizzati o sottoutilizzati, perchè non hanno mai funzionato a pieno regime?
Ogni caso di carcere inutilizzato è una storia a sé, fatta di inefficienze e lungaggini. Ci sono istituti che abbiamo visto inaugurare talmente tante volte che diventa quasi ridicolo parlarne. Ma il punto è a monte: non si può pensare che l’aumento dei posti letto disponibili nel sistema penitenziario sia di per sé una soluzione al problema delle carceri. La storia ci ha sempre dimostrato che più carceri si costruiscono e più in fretta le si riempiono. È sostenibile una società che continua a incarcerare e costruire, costruire e incarcerare? Qual è il limite? Qual è la percentuale di detenuti rispetto alla popolazione totale oltre la quale dobbiamo dire di aver fallito qualcosa? Sono queste le domande che dovremmo porci. E allora forse ci accorgeremmo che l’utilizzo sventolato e di bandiera del sistema penale e del carcere che è stato fatto nell’ultima fase storica ha portato, insieme a un po’ di effimero consenso politico, tanti e tanti danni.
I fondi disponibili nella Cassa delle Ammende (del Ministero della Giustizia tradizionalmente destinato al reinserimento dei detenuti), sono stati impiegati per edilizia carceraria, cosa resta per i progetti sociali?
La Cassa delle Ammende è stata quasi del tutto depredata per l’edilizia penitenziaria, e quel poco che è rimasto è stato destinato a progetti spot senza un filo conduttore che li rendesse sistematici. Ai progetti sociali in generale non resta molto. È stata inoltre definanziata una buona legge, la legge Smuraglia, che prevede incentivi e sgravi fiscali per quelle aziende che assumono detenuti. I soldi della Cassa delle Ammende si sarebbero potuti impiegare lì. Sarebbe stata un’azione ben più organica e ben più utile ai fini della reintegrazione sociale.
Qual è a suo avviso la strada per uscire dall’ emergenza?
Smettere di pensare solamente al domani e porsi il problema anche del dopodomani. Servono azioni capaci di agire anche sui tempi lunghi. Non possiamo continuare a pensare di risolvere ogni problema con il carcere. Varie commissioni nelle passate legislature hanno lavorato a riformare il codice penale italiano. Nessuna è arrivata fino in fondo. Bisognerebbe tornare su quei progetti, prevedere pene diverse dal carcere, mettere mano a quelle leggi – prima tra tutte quella sulle tossicodipendenze – che producono eccessiva carcerazione, tornare a ragionare in termini sociali nell’affrontare molti problemi e non esclusivamente in termini penali.
Fonte foto: Clarita 82 on Flickr