Roma, Chiostro del Bramante: “poesia e luce” di Joan Mirò
di Laura Guadalupi
«Il mio studio è come un orto… io sono il giardiniere». Così diceva di sé Joan Mirò quando nello studio Sert si prendeva cura delle proprie opere come un giardiniere fa con le sue piante. La citazione è del 1966. Sono trascorsi già dieci anni da quando l’artista catalano, nato e cresciuto a Barcellona, ha deciso di trasferirsi definitivamente a Palma di Maiorca per concretizzare il sogno di lavorare nella tranquillità della campagna in uno studio tutto suo. Progettato dall’amico architetto Josep Lluìs Sert, l’atelier è il luogo in cui Mirò trascorre gli ultimi trent’anni della sua vita, creando capolavori nel silenzio di Maiorca. L’isola, terra d’origine della madre, rappresenta per l’artista poesia e luce. Non a caso, Mirò! Poesia e luce è il titolo della mostra ospitata presso il Chiostro del Bramante, a Roma, fino al 10 giugno.
LA MOSTRA – La rassegna presenta oltre 80 lavori mai giunti prima nel nostro Paese, tra cui 50 olii, terrecotte, bronzi e acquerelli. Marìa Luisa Lax Cacho, riconosciuta a livello internazionale tra i maggiori esperti dell’opera di Mirò, è la curatrice di questa mostra che si concentra sulla produzione artistica degli ultimi trent’anni di vita del pittore.
Le opere sono ordinate cronologicamente e tematicamente all’interno di un percorso che si snoda in nove sale. Sono esposti il primo olio di Mirò che si sia conservato, risalente al 1908, e vari bozzetti tra cui quello per la decorazione murale del refettorio della Harkness Commons, il centro per laureati dell’Università di Harvard, o ancora lo schizzo per la Sala dei Delegati del Palazzo dell’ONU a New York. A conferma dell’importanza che l’ambiente riveste per Mirò, negli spazi espositivi sono stati ricostruiti inoltre gli interni dello studio Sert, con tanto di tavolozze e pennelli, strumenti di lavoro e oggetti conservati grazie all’attività della Fundaciò Pilar i Joan Mirò.
L’EVOLUZIONE DELL’ARTISTA – Nel corso degli anni ’60 e ’70 l’iconografia dell’artista catalano si fa astratta e le figure si amplificano, mentre convivono stili e modi di esecuzione diversi. Dello stesso anno, il 1966, sono ad esempio Mosaico, opera statica, e Poesia, quadro dinamico, movimentato da pennellate confuse. A cavallo del nuovo decennio Mirò inizia a dipingere per terra, camminando sulle tele e lasciandovi involontarie tracce della propria presenza, come impronte di mani e gocciolamenti di colore più o meno intenzionali. Questa pratica pittorica e l’aumento nelle dimensioni dei supporti ricordano l’espressionismo astratto americano, influsso che ritroviamo anche nella predilezione per il nero nei dipinti monocromi degli anni ’70. L’intento di raggiungere il massimo dell’intensità con il minimo dei mezzi porta Mirò a scegliere un processo creativo fatto di essenzialità nelle forme e nei colori. La preferenza per il nero e per il vuoto sono reminiscenze anche della sua passione per l’arte e per la calligrafia orientale, approfondite durante due viaggi in Giappone.
Infine la mostra offre testimonianza degli ultimi capolavori, quando il Mirò-giardiniere si cimenta nella pittura materica realizzando assemblaggi su tavole di compensato, cartone e materiali da riciclo e cura i suoi fiori a mani nude, dipingendo con le dita e stendendo il colore con i pugni.
Fonte foto:
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