“Et in terra pax”: la periferia romana raccontata da Daniele Coluccini e Matteo Botrugno
di Valentina Verdini
Et in terra pax è un film sulla periferia romana dove il “Serpentone” fa da sfondo a storie di vita, di criminalità, di speranza. Così viene chiamata quell’enorme colata di cemento nel quartiere Corviale di Roma: un chilometro di lunghezza, 9 piani, circa 1200 appartamenti. Il “Serpentone” è il prodotto dell’edilizia popolare che a partire dagli anni ’70 ha seminato nel territorio romano nefandezze architettoniche dove il degrado si mescola alla voglia di cambiamento da parte di chi vi abita. Nel film, Marco uscito dal carcere dopo una condanna di cinque anni per spaccio di droga, cerca di cambiare vita. Ad attenderlo però vi è solo una panchina: si siede lì, alle spalle il “Serpentone” e vende cocaina. È un lavoro facile, si guadagnano du sordi, d’altronde quali sono le alternative? Nessuna. Su quella panchina Marco incontra Sonia, una ragazza del quartiere che frequenta l’università e nel frattempo lavora al bar di Sergio. Sonia da un lato, l’emblema del riscatto sociale. Niger, Fausto e Federico dall’altro, ragazzi che vengono risucchiati dal vortice della criminalità, della violenza, della droga, dall’attrazione per il “soldo facile”.
Dei personaggi di Et in terra pax, di questa Roma che ha contato dall’inizio del 2011 più di 30 omicidi violenti, della politica che promette a parole ma che nei fatti poco si adopera per riqualificare i quartieri di cintura, ne abbiamo parlato con i registi del film, Daniele Coluccini e Matteo Botrugno.
Da dove nasce l’idea di girare un film sulla periferia di Roma? E perché scegliere il quartiere Corviale come luogo di ambientazione?
Matteo: Siamo di Roma e amiamo ogni lato della nostra città. Le periferie sono interessanti perché si respira vita pura e si percepisce un’energia che talvolta esplode in qualcosa di grandioso e innovativo ma talvolta, per via dell’isolamento di alcune di queste zone ai margini della città, sfociano in rabbia cieca, criminalità, solitudine. Questa concatenazione fra causa ed effetto ci interessava particolarmente e abbiamo deciso, ispirati da alcuni fatti di cronaca, di scrivere un film sui danni dell’isolamento. Tutto il dramma è supportato da Et in terra pax tratto da un Gloria di Antonio Vivaldi che enfatizza le azioni dei nostri personaggi. Il contrasto fra violenza metropolitana e musica sacra ci sembrava adatto per esprimere l’idea della violenza e i segni che questa lascia sui personaggi.
Il “Serpentone” di Corviale è per noi un personaggio aggiunto. Un palazzo lungo un chilometro in cui abitano migliaia di persone era la location ideale per esprimere l’idea di isolamento. Inoltre riteniamo il Nuovo Corviale l’archetipo di tutte le periferie: nel guardare questo enorme palazzo si realizza immediatamente che la storia è ambientata ai margini di una metropoli. Il film ha girato più di cinquanta festival in tutto il mondo ed ognuno ha visto il “Serpentone” come un pezzo della propria città, fermo restando che le vicende che narriamo nel film non c’entrano niente con la vita reale del quartiere.
Durante le riprese di Et in terra pax quali sono state le reazioni degli abitanti del quartiere Corviale?
Daniele: Sostanzialmente siamo stati ignorati per la maggior parte del tempo. Gli spazi sono molto grandi e quindi è difficile incontrare persone. Alcuni abitanti del palazzone ci hanno aiutato, qualcuno di loro ha persino recitato in una scena che si può vedere nei contenuti speciali del film. Abbiamo rispettato la vita del quartiere e abbiamo sempre specificato che l’uso della location è stata dettata esclusivamente da motivi artistici e crediamo che gli abitanti di Corviale abbiano capito le nostre intenzioni.
Nel film emergono diverse tematiche sociali che attanagliano le zone periferiche delle grandi città: criminalità giovanile, ricerca del “soldo facile”, difficoltà di integrazione, violenza sulle donne, mancanza di adeguate politiche per il reinserimento di ex detenuti: in che modo la politica dovrebbe intervenire?
Matteo: La politica interviene spesso e volentieri solo in campagna elettorale. Si promettono cambiamenti, si minaccia di abbattere edifici, si parla di servizi che la maggior parte delle volte non vengono avviati. Parole, insomma. La politica però non è solo quella dei partiti, ma anche quella che associazioni, comitati di quartiere e centri culturali e/o sportivi fanno quotidianamente sul territorio per togliere i ragazzi dalla strada, per educarli o per aiutarli a trovare un obiettivo. Questa è politica. Riqualificare un quartiere è possibile ma servono meno parole e più fatti.
In questo senso, l’arte, il cinema, la fotografia, il teatro possono avere un ruolo?
Daniele: Ogni manifestazione artistica aiuta l’emancipazione dell’individuo e fa in modo che l’individuo stesso si rapporti agli altri invece di chiudersi, di isolarsi. Il ruolo dell’arte nella società è di fondamentale importanza perché crea un dibattito, permette di capire ciò che spesso ci sfugge o che magari facciamo finta che non esista. L’arte crea dialogo, ci fa uscire di casa, ci fa smettere di lobotomizzarci davanti a reality e programmi televisivi insulsi, ci fa iniziare a pensare, condividere, creare, sperimentare e, soprattutto, comprendere ciò che succede intorno a noi. Qualcuno ha deciso che la gente vuole solo non pensare. Noi crediamo che la gente invece sia stanca di essere presa in giro e una volta che ha alternative e opportunità le sfrutta con il massimo dell’entusiasmo e dell’energia.
Nel 2011 a Roma sono stati compiuti più di 30 omicidi. Regolamenti di conti hanno avuto luogo anche nei quartieri “bene” della capitale e in pieno giorno, segno che la criminalità organizzata agisce indisturbata e in zone centrali che non vivono il degrado della periferia. L’amministrazione della giunta Alemanno e le precedenti hanno sottovalutato il fenomeno?
Matteo: Da questo punto di vista non esiste distinzione fra centro e periferia. Roma sta tornando ad essere una città violenta ed in questo momento particolare ci troviamo di fronte ad un fenomeno di “spartizione della torta” da parte dei vari gruppi criminali che operano nella capitale. La giunta Alemanno è impotente davanti a questo fenomeno. Il centro-destra ha promesso in campagna elettorale un cambiamento radicale e ha fatto una forte opposizione quando le precedenti amministrazioni sono state sorprese da fatti di criminalità particolarmente brutali. Questa opposizione però è risultata sterile. Un’altra lunga serie di chiacchiere fini a se stesse. Le precedenti amministrazioni hanno sottovalutato alcuni problemi e l’amministrazione Alemanno non è in grado di mantenere le promesse fatte. In definitiva crediamo ci debba essere il reale interesse a cambiare le cose e per cambiare bisogna far sì che il cittadino si senta parte di qualcosa. Il cambiamento deve venire da noi, dal nostro desiderio di legalità, dalla voglia di non doverci più trovare a far fronte a situazioni del genere. In cambio però dovremo ottenere rispetto e dignità per noi cittadini. Solo in questa maniera la politica, quella dei fatti e delle promesse mantenute, potrà essere un punto di riferimento per uscire da situazioni instabili come quella che sta vivendo Roma in questo periodo.
La periferia non è solo criminalità e nel film Sonia ne è un esempio. Girando Et in terra pax siete venuti in contatto con associazioni, cittadini che lavorano per la riqualificazione del territorio? E soprattutto c’è speranza per il cambiamento?
Daniele: Come già detto in precedenza la speranza risiede proprio nell’entusiasmo della gente che si rimbocca le maniche e lavora quotidianamente per migliorare la propria vita e quella di tante persone che vivono nei quartieri più problematici. Il film ci ha fatto entrare in contatto con alcune di queste realtà. Questa è la vera politica: le persone sono realmente artefici di qualcosa e molti politici, delegati dal popolo, dovrebbero onorare la responsabilità che hanno e prendere esempio da chi si muove e lotta per migliorare e riqualificare le varie zone della città. Con ciò non vogliamo intendere che i partiti politici siano assenti sul territorio, ovviamente.
La speranza c’è eccome. Basta aprire gli occhi, guardare in faccia la realtà, provare a capire e interpretare ciò che ci circonda e, soprattutto, smettere di credere alle promesse e dare la nostra fiducia a chi la merita davvero e a chi interpreta la politica sul territorio come un modo per ottenere un profitto collettivo e non personale.