“Sinfonia dialettale” il concorso dell’ Associazione “Il Faro” che preserva i dialetti dall’ oblio.
di Lucia Varasano
Spesso si attribuisce al dialetto un valore minore rispetto alla lingua nazionale, a volte è associato ad un’immagine negativa che lo vede relegato a condizioni socio- culturali inferiori, eppure, una delle ricchezze dell’italiano è proprio la sua varietà linguistica. Lo sanno bene Daniela Moreschini e Renato Fedi- rispettivamente Presidente e vice presidente- dell’Associazione Culturale “Il Faro” di Roma, cui mission è appunto la rivalutazione dei dialetti, della cultura e delle tradizioni d’ Italia.
Immaginiamo il nostro paese, italofoni e dialettofoni si susseguono percorrendo la penisola da nord a sud, un continuum su cui si dispongono varietà di italiano e varietà di dialetto, che si spezzetta e si ricompone in continuazione: c’è chi il dialetto lo parla, chi lo parla e lo scrive e chi lo capisce ma non lo parla. C’è il dialetto più arcaico, quello più “italianizzato” perciò nello stesso comune c’è chi il fazzoletto lo chiama “fazzulettu” e chi lo chiama “maccaturi”. Ci sono tanti giovani che il dialetto non lo parlano ma che se ne servono per arricchire il loro gergo, magari accanto a qualche forestierismo.
La produzione letteraria dialettale è vastissima, si annoverano testi teatrali e prosa, racconti, componimenti poetici che preservano i dialetti dal fuoco dell’ oblio. Nella quinta edizione del concorso “Sinfonie dialettali” indetto dall’ Associazione “Il Faro”, vi è un mix di tutto questo. I vari brani dell’ antologia ( acquistabile contattando l’ associazione) “raccontano spesso di un amore profondo per i luoghi d’ origine, tracciano storie di vite e quadri d’ ambiente” dice il vicepresidente Renato Fedi.
È tra queste pagine che prende vita l’Italia tutta: dal cuore contrastante di Napoli, dove per vivere ci s’ inventa di tutto, da una riffa con «quatt’ butteglie ‘e vermutt annacquato e quacch’ scatule ‘ e biscotti avariati» a «l’ invitato Donn Antò» che piange ai funerali e ride ai matrimoni, «ci sono tanti mestieri quanti sono gli abitanti» in “Bianco e nero” di Vittorio Fabbricatti, napoletano che vive in Basilicata, primo classificato per la narrativa. C’è la Sicilia degli agglomerati di case rurali in “A robba ranni” scritta in dialetto nisseno (della provincia di Caltanissetta) da Giuseppe Bellanca, e c’è la “Sicilia d’ altri tempi” di Michela Tropea, quella degli anni ’40 dove ‘Gnaziudda , matriarca rimasta vedova, è vestita a lutto e con sette figlie da maritare. Ella ha ingoiato sé stessa «in nome di una società che vuole le donne sottomesse, ubbideinti, vestite di nero» prenderà coscienza della sua vita e di quanto ami i colori solo quando sarà rimasta sola. Ma c’è anche la divertente storia di Totano, unico capitone sopravvissuto al natale napoletano che vive in una vasca da bagno, in “O’ Capitone” di Antonio Covino, si direbbe, scritto da un animalista.
C’è «una spiga che si piega nel mese di luglio e ci regala la farina […] il sacco in spalla e la valigia» ne “Er`mé pais” di Pietro Baccino, scritto nel dialetto di Giusvalla (SV). All’ autore- primo classificato nella sezione Poesia- il merito di aver redatto anche il dizionario dialettale in questo comune dell’ entroterra ligure abitato da appena cinquecento persone. Si susseguono nell’ antologia, una miriade di componimenti scritti nei dialetti più disparati: dal reggino al senigallese, dal friulano al livornese, dal trevigiano all’ arbëréshe, dal comasco con “Ta serat chi” di Remo Pretini al salentino di Adriano Rizzo con “Terra”. Una menzione speciale a Giuseppe Ghidinelli per “Migole de pa” e a Gustavo Tempesta, molisano che vive a Roma ma parla e compone versi in entrambi i dialetti, per “Ne frusce d’ ale”. Per finire “Una bambola speciale” tra quelle di coccio, di stoffa e di plastica, nella Napoli di Miriam De Michele, prima classificata per la Narrativa Scuole Sec. di II°.