Master, una scelta per il futuro. Ecco come scegliere quello giusto
di Emiliana De Santis
Abusato, portato in trionfo, inutile spreco di risorse. Identificare oggi in Italia un buon percorso di studi post laurea è esercizio di non poca difficoltà. I fattori in gioco sono tanti, prima di tutto quello economico e professionale, e la domanda che ci si pone è sempre la stessa: ne vale davvero la pena? In un panorama variegato, spesso contraddittorio, fatto di mille proposte e altrettante sirene, offriamo una mini guida per aiutare chi, giovane e meno giovane, abbia deciso di intraprendere un master.
Perché? Il master non è solo un percorso di approfondimento e aggiornamento degli studi, ma un nuovo modo di approcciare il lavoro, attuale o potenziale che sia. È quindi utile distinguere tra percorsi formativi post laurea, corsi di perfezionamento, executive e full time. I primi hanno in genere una durata annuale e riconoscono crediti formativi; basta una laurea triennale per poterli frequentare e prevedono uno stage al termine delle ore di lezione in aula. Simili i secondi che tuttavia non riconoscono crediti, e sono frequentati da professionisti o persone che hanno nel campo prescelto una certa esperienza. Un po’ come gli executive, ossia i master che si svolgono nel fine settimana o nelle ore serali, studiati appositamente per alcune fasce di età e tipologie di lavoro. È questa la vera novità in campo, il jolly che molte università in Italia stanno giocando: il programma è tailored, ossia tagliato su misura in modo da garantire ai partecipanti un percorso di specializzazione il più accurato possibile. Restano i full time, come il classico MBA, Master in Business Administration, snodo chiave per una generazione di imprenditori in erba che volge lo sguardo verso l’estero e verso il futuro.
I criteri. Secondo il MiM, il ranking dei Masters in Management del Financial Times esistono 22 parametri in base ai quali valutare un master, raggruppati in 3 macroaree: lo sviluppo di carriera e il potere d’acquisto della retribuzione dei diplomati, la multiculturalità della scuola e del programma e la qualità del corpo docente. La classifica in questione valuta però i migliori programmi pre-esperienza lavorativa offerti dalle più importanti 70 business school del mondo escludendo il campo umanistico. Per quest’ultimo non esistono veri e propri standard di misurazione anche se valgono pur sempre poche e semplici regole: verificare il metodo didattico e l’internazionalizzazione della faculty, valutare le reali opportunità di stage e carriera – il master può e deve essere un trampolino di lancio e non un parcheggio in attesa di trovare occupazione – e documentarsi attraverso le associazioni di Alumni e i forum di discussione sul web. Fanno la differenza un metodo practice orientied e un rapporto interattivo tra docente e partecipante, un numero di professori e professionisti stranieri o con esperienza all’estero superiore al 40% del corpo docente totale, elevati quozienti di recupero dell’investimento attraverso un lavoro soddisfacente e ottimamente retribuito, la presenza di tutors, facilities e associazionismo extra-didattico.
Le nuove proposte. Tutti questi elementi rendono la Bocconi primus inter pares nel panorama italiano. Ma la solida reputazione dell’ateneo milanese é da qualche anno insidiata da offerte formative nuove, moderne e di grande successo come quella della School of Management di Trieste, la città più scientifica d’Europa, il Politecnico di Milano che oltre all’ottimo piazzamento nel ranking FT ha appena rinnovato un accordo con il Massachusetts Institute of Technology di Boston per finanziare e promuovere lo scambio di ricercatori e PhD, l’ESCP, la scuola di management europea con sede, tra l’altro, a Torino e la LUISS Business School con nuovissimi corsi interamente dedicati all’innovazione e allo sviluppo dell’entrepreneurship. Sembrano inoltre in fase di decollo due nuovi strumenti, previsti dall’art. 5 del decreto legislativo 167/11, il Master di Alto Apprendistato e il Dottorato Industriale. Si tratta di ponti costruiti tra imprese e università i quali, attraverso l’inserimento dei dottorandi in azienda e, viceversa, il trasferimento dei risultati ricerca nei poli industriali puntano a colmare il gap di risorse e il ritardo tecnologico che affaticano l’economia italiana.