C’era una volta il Kenya…
di Alessandra Vitullo
La scorsa settimana, precisamente il 7 dicembre, una bomba piazzata di fronte a una moschea a Nairobi, nel quartiere di Eastleigh dove vive una cospicua comunità somala, ha fatto cinque morti e otto feriti; due giorni prima, nella stessa area, un altro attentato ha ucciso altre otto persone; mentre il mese scorso, una granata lanciata contro un bus sempre a Eastleigh, aveva provocato la morte di sette persone. Eastleigh viene anche chiamata la piccola Mogadiscio, per la forte presenza di somali che vi si sono rifugiati, dopo lo scoppio della guerra civile nel 1991.
Un rapporto delle Nazioni unite afferma che gli scontri che avvengono tra le varie etnie per il controllo delle risorse o per conflitti religiosi, hanno causato nel 2012 in Kenya la morte di 412 persone, il ferimento di altre 258 e 112 mila sfollati. Solitamente le notizie che ci giungono dal Kenya sono scarse e lacunose, su internet è difficile trovare qualcosa più lungo e dettagliato di un lancio d’agenzia. Ogni tanto ci giunge qualche immagine degli atroci massacri che avvengono tra clan rivali, qualche documentario ci parla della povertà che affligge gli slum, e alcuni programmi televisivi ci ha fatto familiarizzare con le folkloristiche tribù Masai.
Mi era stato raccontato del Kenya molti anni fa, da un amico che, con devozione pellegrina, ogni estate andava a fare l’animatore in uno dei quei super resort, a cinque stelle più, oasi felici per occidentali in cerca di relax, dalle parti di Nairobi. Immerso nella natura mozzafiato, ma allo stesso tempo cortesemente distaccato dal Terzo mondo, il superalbergo offriva ai turisti safari fuori porta, con guida del posto, su percorsi selezionati, a bordo di enormi 4×4, lontani da tutto quello che avrebbe potuto turbare la meritata settimana di vacanza. “Certo appena ti allontanavi un po’ dal villaggio vedevi certe scene…” mi diceva, e mentre io ascoltavo, ovviamente annuivo con frasi di circostanza: “Sì, immagino cosa possa esserci là fuori… che contraddizioni, lì c’è la povertà vera!” e così terminava il racconto della nostra estate appena conclusasi.
Ho risentito parlare di Kenya il mese scorso, prima del terribile attentato di fine novembre, ad autunno ormai inoltrato, stavolta da Irene. Irene ha la mia età, 24 anni, anzi no, due anni in meno. Pensieri ed esperienze che si assomigliano, interessi e aspirazioni che a tratti ci accomunano e il suo viaggio in Kenya, che da Ingegneria l’ha fatta passare a Scienze per la pace. Lei in Kenya ci è andata per uno di quei pochi motivi per cui realmente bisognerebbe visitare quei posti: per conoscerli.
Lei di Firenze, io di Roma, conosciute a Parigi, ci rincontriamo dopo qualche mese.“Pranziamo insieme?”, e ci ritroviamo intorno a una tavola a parlare di Africa, di Kenya per l’appunto, come se fosse una reazione fisiologica ai 20 euro di carbonara appena ordinati. Una conversazione in cui posso dire la mia, penso, del resto ho quelle due, tre, nozioni sull’argomento: miseria/paesaggi incantevoli/Masai… E poi in Kenya c’è stato il mio amico e del resto se un caro amico ti racconta un’esperienza, in un certo senso è un po’ come se l’avessi fatta anche tu.
Irene mi parla di slum, di quello di Korogosho dove lei è stata, quello a pochi chilometri dalla capitale; magari è vicino all’albergo a cinque stelle dove il mio amico ha fatto l’animatore, mi dico. Korogosho è un’immensa distesa di rifiuti sulla quale si innalza una coltre di fumo nero di plastica che brucia. “La prima prova che devi superare per entrare in uno slum è quella di resiste al cattivo odore – mi racconta – che è talmente forte che dopo cinque minuti ti ritrovi a combattere contro i conati di vomito”. Lo slum è fatto a cerchi concentrici: più ci si addentra, più le condizioni delle persone che ci vivono peggiorano. Dante se l’era immaginato bene l’Inferno. “Si corre il rischio di perdersi in uno slum, si deve essere accompagnati per forza da dei socialworker, abitanti dello slum che collaborano con le Nazioni unite. Quasi tutti lì posseggono un cellulare per comunicare, guadagnando uno o due dollari al giorno”, rigurgiti della globalizzazione. Nonostante la guida, Irene mi dice di non esser riuscita ad arrivare nel cuore dello slum, lì dove vivono le ragazze madri: “ragazze di tredici, quattordici, anni, che dopo essere state ripudiate dai loro mariti, sono diventate le donne di tutti e insieme ai loro figli vivono al gradino più basso della scala sociale, al di sotto perfino dei lebbrosi, che effettivamente le circondano.”
Sono donne che per lavorare compiono dieci, quindici, chilometri a piedi, ogni giorno. “Con alcune ho anche lavorato insieme, probabilmente rallentandole, la loro occupazione è quella di costruire braccialetti, collanine, utensili, riutilizzando l’enorme quantità di infradito che la corrente dell’oceano Indiano fa stranamente accumulare sulle coste”, magari rivendendoli a qualche turista che esce per il safari settimanale.
Irene ha conosciuto anche tantissimi bambini, che a otto, dieci, anni già seguono i percorsi di disintossicazione, messi a disposizione dai padri comboniani, dipendenti ormai da ogni tipo di colla, sniffata per resistere alla fame. “Nelle fattorie dove seguono la terapia vengono a contatto con le mucche, e proprio qui per la prima volta capiscono come si produce il formaggio. Normalmente loro sono convinti che il formaggio nasca dalla discariche, del resto è l’unico posto dove riescono a trovarlo: tra i rifiuti accumulati dai voli intercontinentali”.
“Poi sono stata nel Centrafrica”-“Ah sì, in quale stato?”-“No, proprio nella Repubblica Centrafricana” – “Ah, ok…” e nel frattempo rifletto sul fatto che esista uno stato che assuma il nome della sua posizione geografica, da me completamente ignorato. Per chi fosse rimasto sorpreso come me, si trova tra Congo e Chad, capitale Bangui. “Lì, già solo per entrare ed uscire dal Paese è un’avventura. Ogni controllo è una mazzetta, poi quando l’aereo è pieno via si parte; il mio è partito con un’ora e mezza di anticipo! Sì, insomma sai quei paesaggi da documentario: con le vacche scheletriche, due bastoni e un telo che fanno da casa a una decina di persone, ecco…” Ma questa è un’altra storia…
“Non hai detto niente di nuovo…” Mi ha detto quell’amico animatore al quale ho fatto leggere per primo quello che avevo intenzione di scrivere e forse l’avrete pensato anche voi e forse è vero. E mentre trascinavo nel cestino il file word mi domandavo: com’è stato possible che una delle peggiori tragedie dei nostri tempi sia diventata una banalità da raccontare? Ma oggi voglio essere banale.
foto di Giulia Contini
evidentemente il kenia non e’ un territorio ambito dalle potenze altrimenti si sarebbero dati da fare per cercare di risanarlo trovando una scusa qualsiasi come hanno fatto in iraq e in altri stati dove gli interessi erano talmente forti da giustificare i loro interventi come interventi umanitari