Tennis Usa, where are you?
di Cristiano Checchi
Melbourne, Australian Open 2013. La parte alta del tabellone ha già sentenziato chi saranno a giocarsi i quarti di finale: Djokovic, Ferrer, Bardych e Almagro. La parte bassa, quella con Federer e Murray, sta stabilendo in queste ore i contendenti. Ma una cosa è certa: tra gli otto non ci sarà neanche un americano.
Melbourne, Australian Open 2003. Andre Agassi vince in finale contro il tedesco Rainer Schüttler. Sono passati 10 anni dall’ultima volta che un rappresentante di uno dei paesi con maggiore tradizione tennistica si sia imposto nella prima prova dello slam. Ma si può fare peggio.
Melbourne, Australian Open 1995. Nei quarti di finale l’America porta cinque rappresentanti, quattro in semifinale. Pete Sampras, Jim Courier, Andre Agassi, Aaron Krickstein e Michael Chang si giocano l’accesso alle semifinali, neanche stessero giocando qualche torneo juniores in giro per l’America. Alla fine a raggiungere la semifinale ci riusciranno tutti tranne Courier, eliminato da Pete Sampras. A vincere il torneo sarà Agassi che vinse il primo dei suoi quattro Australian Open, e pensare che all’inizio di carriera lo slam australiano Agassi non lo andava neanche a giocare.
Tre tappe fondamentali per capire che qualcosa è cambiato. Ma ce ne sarebbero tante altre a far da contorno: l’anno dopo, il 1996, in Australia a giocare tra le prime 8 teste di serie del mondo 4 erano americane. Oggi non c’è neanche un americano nella top 10. L’ultimo acuto di gruppo made Usa in Australia c’è nel 2000, quando a far compagnia ad Agassi (che poi vincerà il torneo) in semifinale ci sono Pete Sampras e Chris Woodruff. Dieci anni fa, come detto l’ultima vittoria di Agassi, poi toccava alla nuova scuola. Ma a parte qualche tentativo di Roddick finito sempre in semifinale c’è poco da ricordare. Roddick (che si è ritirato lo scorso anno) doveva essere la nave ammiraglia della nova flotta americana intenzionata a dominare ancora nel mondo del tennis, ma così non è stato. Fish e Blake ci hanno provato a fargli compagnia, non solo in Australia, ma nel circuito, peccato che, qualche buona stagione a parte, hanno concretizzato poco o nulla. Il problema quindi per il tennis americano è grande, ed è triste pensare alla nazione che ha vinto, contando solamente gli esponenti degli ultimi 30 anni, la bellezza di 41 tornei del Grande Slam e in totale 32 Coppe Davis, ferma negli ultimi 13 anni ai soli titoli di Sampras a Wimbledon nel 2000 e agli Us Open nel 2002, di Agassi nel 2003 a Melbourne e di Roddick, sempre nel 2003, negli Us Open. Di sicuro venire dopo la generazione di Sampras (14 titoli della slam), di Agassi (8) e di Courier (4) è dura (lo fece presente Roddick all’eliminazione dagli Internazionali d’Italia nel 2011), ma è anche vero che questa generazione appena citata seguiva quella dei vari Mc Enroe (7) e Connors (8), eppure non hanno avuto problemi di adattamento al successo, anzi. Allora il problema è di altra natura, nei metodi d’allenamento e nelle strategie usate. La cara vecchia scuola di Nick Bollettieri, dopo aver sfornato gente come Agassi, Courier, Sampras, Boris Becker, le sorelle Williams, Monica Seles e tanti altri, sembra non essere più efficace, è diventata forse troppo prevedibile, senza contare che comunque le superfici di adesso sono tutte molto più simili. Altro problema è nei numeri, oltre a quelli dei successi (impietosi), c’è quello preoccupante su quanti tennisti ci sono in America, 88.000 (fonte United States Tennis Association). Pochi, troppo pochi se paragonati al numero della popolazione e a quanti ce ne sono in altre nazioni decisamente più piccole. In America sempre meno ragazzi giocano a tennis, mentre dalle altri parti il tennis è diventato sempre più accessibile. Adesso c’è Isner, 13esimo del ranking, Querry che a malapena è riuscito a riavvicinarsi alla top 20, poi c’è lo sfortunato Baker, promettente da giovane ma perseguitato dagli infortuni, l’ultimo proprio la settimana scorsa a Melbourne. E ancora, viaggiano nella parta bassa della top 100 i vari Blake, Ginepri e Young. La speranza si chiama Harrison, ma comunque il futuro Usa non sembra per niente roseo.