L’emblema della precarietà: il contratto a termine
di Danilo Volpe
Il contratto di lavoro a termine, meglio conosciuto come contratto di lavoro a tempo determinato, rappresenta sicuramente l’emblema della precarietà ed è oggetto delle più aspre critiche da parte di chi vorrebbe un mercato del lavoro più stabile.
Lungi dal voler essere una sterile elencazione di norme, il fine di questo articolo è, invece, quello di permettere ai lettori che siano anche lavoratori precari di capire se il loro contratto di lavoro sia o no “genuino”.
A riguardo, occorre, dunque, partire dal fulcro della normativa del contratto a termine, vale a dire il Decreto Legislativo n. 368/2001 (recentemente modificato dalla Riforma Fornero) che, nonostante sia stato molte volte “demonizzato” dagli esperti del settore, contiene qualche piccolo accorgimento a tutela dei lavoratori cd. precari.
In primo luogo, occorre esaminare attentamente il contratto di lavoro (sperando che vi sia!) per verificare la presenza dei seguenti requisiti:
– forma scritta del termine;
– specificazione dettagliata della motivazione (di carattere tecnico, produttivo e/o organizzativo) che giustifichi l’apposizione del termine.
È bene ricordare, infatti, che l’apposizione del termine di durata al contratto di lavoro deve essere sorretta da una ragione giustificatrice che, come già detto, può rinvenirsi in esigenze tecniche, produttive o organizzative del datore di lavoro. In assenza di tale motivazione o se la stessa risulti generica e/o pretestuosa, il contratto a termine diviene a tempo indeterminato sin dal giorno dell’assunzione (ovviamente, previa pronuncia di un Giudice del Lavoro).
In merito alla motivazione del contratto a termine, tuttavia, la Riforma Fornero ha introdotto una deroga (solo per i contratti stipulati dopo il 19 luglio 2012), eliminando l’obbligatoria indicazione delle ragioni giustificatrici: ciò a patto che si tratti del primo contratto a termine tra una determinata azienda e un determinato lavoratore e che lo stesso contratto abbia una durata inferiore ad un anno.
Come premesso, è la stessa disciplina del contratto a termine che contiene degli espedienti per arginare la precarietà, in maniera tale che un lavoratore non rimanga precario vita natural durante, almeno nei confronti della medesima azienda.
Ciò avviene, soprattutto, per ciò che concerne la disciplina della proroga, della successione e della durata totale.
La proroga consiste nell’estensione della durata dell’originario contratto a termine (purché questo abbia durata inferiore ai 3 anni): essa è ammessa una sola volta e deve essere giustificata da ragioni oggettive, riferibili sempre ad esigenze tecniche, produttive ed organizzative dell’azienda.
La successione si ha, invece, nel caso in cui un’azienda faccia scadere un contratto a termine con un determinato lavoratore e stipuli un nuovo contratto di lavoro sempre a termine con il medesimo lavoratore. In questi casi la legge prevede che tra il primo e il secondo contratto debba intercorrere un intervallo minimo la cui durata è stata recentemente modificata dalla Riforma Fornero: tale intervallo è diverso (60 o 90 giorni) a seconda che il primo contratto abbia, rispettivamente, durata inferiore o superiore a 6 mesi.
Per effetto di proroghe e/o successioni, infine, il rapporto di lavoro con la medesima azienda deve avere una durata massima di 36 mesi (escludendo dal calcolo i periodi di interruzione tra un contratto ed un altro).
In caso di violazione di tali norme, il rapporto di lavoro deve considerarsi a tempo indeterminato sin dal giorno della prima assunzione a termine.
Qualora, dunque, vi siano state delle irregolarità operative da parte dell’azienda e vogliate farle valere in giudizio, dovrete “impugnare” (vale a dire esporre, anche personalmente, le vostre ragioni in una lettera ed inviare la medesima all’azienda) il vostro contratto a tempo determinato, entro un termine perentorio previsto dalla legge, trascorso il quale non potrete più contestarne la legittimità.
Ho provato, e spero di esserci riuscito, a spiegare con pochissime parole l’ostica disciplina di tale tipologia contrattuale, ipotizzata dal legislatore quale strumento di flessibilità ma, purtroppo, utilizzata da molte aziende quale mezzo per ridurre irregolarmente i costi del lavoro.