Diario da Taranto – Siamo tutti ambientalisti
di Greta Marraffa
La bella stagione fa esplodere i colori più variegati. Le strade della città sono desolate e dimenticate. Il vento d’estate conduce famiglie e giovani verso la costiera sabbiosa, meta di pic nic domenicale.
Attendo il presidente del seggio, sono in anticipo come al solito. Sono le 7.45 del 14 Aprile: oggi la città è chiamata a raccolta, a ritagliare una parte della propria domenica soleggiata e a rispondere ad un invito. Le vien chiesto di porgere un parere su una possibile chiusura dello stabilimento Ilva. Un referendum popolare consultivo, una semplice raccolta di opinioni, non avente natura giuridica vincolante.
Sono scrutatrice di un seggio nel quartiere Paolo VI, quartiere alla periferia della città, popolato da moltissime famiglie di operai Ilva ed ex operai Italsider. Centro nevralgico di discussione in cui il conflitto e la dicotomia salute/ lavoro palesa e sprigiona tutti i suoi effetti negativi e distruttivi.
L’affluenza è bassissima, nelle prime ore della mattinata sono solamente uomini a votare, per lo più ragazzi, giovani convinti e decisi. Alcuni, indignati, commentano con parole di disprezzo la scarsa attenzione dei propri concittadini a questa tematica: “Forse ci meritiamo tutto questo”- afferma un ragazzo riccioluto, mentre inserisce le due schede nelle urne -“dovremmo farci tutti un mea culpa, capire da dove ripartire”.
Ripartire. L’invito del giovane votante risuona e rimbomba nei corridoi vuoti e silenziosi della scuola media. Un silenzio che è assordante, che è più potente del rumore di cento tamburi.
Classe 1940, ex operaio Italsider. Mostra il suo documento di identità, intatto ma ingiallito dal tempo. Indossa una giacca elegante e una cravatta rosso porpora, le mani segnate dal tempo e dalle cicatrici della vita e uno sguardo malinconico stampato sul volto. ”Sono un ex operaio Italsider, ho lavorato lì dentro per oltre 25 anni, oggi sono qui e sono marchiato anche io, come queste schede, ho un brutto male”. Il suo sguardo si annebbia di lacrime salate. Con estrema compostezza riprende i suoi documenti e va via.
Come lui, tanti altri metalmeccanici giungono con le proprie famiglie, narrando ognuno la propria storia. E così che il seggio diviene porto di sofferenza e di contraddizioni, quei paradossi che solo in una città come questa sono pane quotidiano. Osservo le loro mogli: sguardo fiero ed impavido, detentrici di un’estrema purezza d’animo, focolaio di protezione e di evasione. “ Abbiamo quattro figli, due di loro sono iscritti all’università”- continua dicendo, esprimendo con pathos la sua disperazione – “ signorì, come amma campà?(signorina come dobbiamo sopravvivere?)”.
Non sono in grado di risponderle. Constato con estrema franchezza la mia impossibilità di riuscire a formulare un ragionamento. Rimango in silenzio e continuo ad annotare all’interno dei registri le credenziali dei votanti. Non si può avere la presunzione di sapere quello che si deve fare o si deve dire. Di fronte a così tanta incertezza e precarietà, qualsiasi parola, anche di conforto, risulta vana e fugace.
All’analisi finale del voto emerge con nitidezza la vittoria del “si” ad entrambi i quesiti, con un vantaggio però del secondo , quello in cui si chiede la chiusura dell’area a caldo. Tale preferenza, a mio avviso, denota un chiaro segnale di discontinuità. Non si vuole la chiusura immediata, ma una chiusura parziale, in altre parole, una possibile risoluzione “graduale” della questione, senza alcun tipo di trauma immediato.
C’è chi si esalta ed invoca Garibaldi e l’impresa dei mille, c’è chi sostiene, in maniera lucida e saggia, di dover constatare da quest’esperienza un’accentuata spaccatura tra le frange e le categorie sociali di questa città.
E’ una lotta generazionale, tra padri e figli, è una battaglia che segna il presente ma scandisce il futuro. Il cambiamento non può passare solo attraverso queste forme di democrazia. La proposta popolare è il risultato di forme di “autogoverno”, scandite dalla presenza massiccia e dal coinvolgimento di tutte le forze sociali.
E in questa ardua lotta per il cambiamento non occorrono leaderismi o slanci di becero ed improduttivo protagonismo che accentuano e rafforzano ancor di più un forte senso di solitudine e rassegnazione. Non ci sono ambientalisti di serie A o di serie B, né tanto meno bombaroli dell’ultima ora: qui abbiamo bisogno di ripartire da un processo di condivisione che rimetta al centro la valorizzazione e l’importanza dell’esistenza, prima di qualsiasi profitto o forma di sfruttamento.