Black Mirror: dentro lo schermo
di Beatrice De Caro Carella
Sei episodi per sei nuclei tematici. Sei rinnovate atmosfere ai confini della realtà in cui ambientare altrettante possibili ipotesi d’esasperazione dell’ultima, unanimemente condivisa perversione del genere umano: la tecnologia.
È questo il fil rouge che attraversa il format miniseriale di Black Mirror, futuristico e spregiudicato elogio alla follia in chiave postmoderna, siglato Charlie Brooker, da sempre osservatore impietoso del culto dei più moderni feticci (Screenwipe, Dead Set, How TV Ruined Your Life). Si condensa così nelle due brevi ma lapidarie stagioni di Black Mirror tutto l’umorismo proprio d’una tradizione tipicamente anglosassone, che non le manda a dire, ma sempre con stile, con spietata irriverenza ed accanita causticità.
Il feticcio del XXI secolo, la tecnologia, pervade la nostra esistenza. Un tempo sua ancella, ne è oggi signora e padrona, al punto d’avere, con la sua ingombrante ma irrinunciabile presenza, definitivamente incrinato l’asse dei rapporti umani. Influenza giornalmente il nostro modo di esistere, rapportarci al mondo, agli altri; a quel tempo che ci scorre rapido tra le dita quanto lo sfiorare dei polpastrelli su uno schermo touch. Black Mirror ci proietta appunto da uno schermo all’altro, da una superficie nera, liscia, riflettente, fredda, perfetta e bellissima, al prossimo buco nero dal quale venire soggiogati. Gli schermi che ci circondano sono lo specchio di ciò che siamo, ma anche il riflesso dell’immagine distorta di ciò che inesorabilmente diveniamo.
Non a caso, Messaggio al primo ministro – la cui trama sarebbe peccato mortale rivelare – apre le danze con un caleidoscopio gioco di specchi (peccato si sia persa la sfumatura originale del titolo, The National Anathem, che per etimologia sintetizzava la dualità insita nel continuare ad adorare Tecnologia, divinità-maledizione pendente sul nostro capo ostinato). Ad ogni modo, gioco di specchi perché lo spettatore, non meno voyer degli sciacalli mediatici qui protagonisti, resta a guardare, oscillando tra il ribrezzo, la curiosità e lo shock, ma mai rifiutandosi di partecipare al perverso spettacolo di scena. Forse meno d’effetto è il tema finale di Ricordi Pericolosi, ma la serie ha già guadagnato punti con 15 milioni di celebrità, metafora strutturata dentro la quale la realtà esiste solo in forma digitalizzata, e ad uso e consumo degli esseri umani. Tutti complici, tutti vittime e tutti colpevoli. Tranne Big Madsen (forse), maschera nuda fuori dal coro che a un certo punto denuncia l’orrore, con la stessa ferocia disperata di Howard Beale (il quale, già allora, la società guardava, consumava, ma mai veramente né vedeva né ascoltava). Come Beale, Madsen verrà promosso giullare di corte, ma comprenderà da subito che il prezzo richiesto al fool affinché riscuota la sua libertà apparente è l’ipocrisia. E Madsen, versione già 2.0 del pazzo profeta dell’etere di Lumet, semplicemente si adegua; opportunisticamente e senza guardarsi indietro.
Chiudono la saga: Torna da me, il già citato Orso Bianco e Vota Waldo!.
Il primo si accanisce sull’uomo del web, così concentrato sulla costruzione della sua identità social network da ipotizzare che da essa possa ricavarsi un perfetto identikit digitale sul quale agire per riportare in vita i morti. Orso Bianco, difficile da raccontare senza rovinarne la ferocia, aggiunge il tema dell’informazione che diviene intrattenimento crudele: i nostri schermi catturano la realtà e per noi la divorano, perennemente riproponendo al loro pubblico-zombie lo stesso nastro.
Con Vota Waldo! si tocca il nervo scoperto dei comici in politica, anatema (stavolta sovranazionale) cui il titolo originale, The Waldo Moment, ben più sarcastico, si riferisce: “la moda Waldo”. L’episodio suggella dunque la serie, e per ironia della sorte lo fa all’insegna d’una politica fatta a brandelli, per bocca d’un comico da Web TV: un animale da circo digitalizzato ed irriverente bocca della verità che si candida alle future elezioni, seppellendo tutti quanti. Il nostro orsetto Waldo si guadagna così applausi scroscianti, sotto cui muore, non più ad oggi la libertà, (tema divenuto secondario) ma l’integrità etica della realtà stessa, miseramente ridotta a merce d’avanspettacolo. Il pubblico, sia loro che noi, nel gioco di specchi, resta a guardare: ride, si esalta, eppure non s’indigna. Perché nessuno mai veramente né vede né ascolta. Il resto è silenzio.