Eppur si muove: il dramma italiano di In Treatment
di Beatrice De Caro Carella
È ufficiale: sotto il mare piatto del serial televisivo italiano qualcosa si muove. Va infatti in onda su Sky dal primo Aprile la versione nostrana della pluri-premiata serie HBO già nota col titolo di In Treatment: storia d’uno psicoterapeuta di mezz’età, che sullo sfondo d’una personale crisi coniugale, si trova a dover affrontare il peso delle sue sedute settimanali. Ed è così che la vita professionale e privata del Dott. Giovanni Mari (Sergio Castellitto) si intrecciano, finché al venerdì il medico non diviene paziente recandosi da Anna (Licia Maglietta).
A voler essere precisi, però, onore al merito andrebbe dato in primis al Medio Oriente israeliano, che sforna per primo il fortunato format, BeTipul, dal quale dal 2008 a oggi verranno ricavati ben più di dieci adattamenti in tutto il mondo. Magari non brilliamo per il nostro sapiente tempismo, è vero; ma qualcosa decisamente si muove. La vera singolarità della serie risiede nella mise-en-scene, volutamente scarna, angusta. Uno studio terapeutico. Quattro pareti color tortora, un paio di abat-jour a luce soffusa, un divano, una poltrona e nessun rapporto con l’esterno. Una vera scommessa artistica, sotto tutti i punti di vista, che la TV Italiana stavolta, inaspettatamente, accoglie, uscendo dal suo seminato. La vittoria morale sta in un azzardo, che potrebbe rivelarsi il preludio d’una rimonta. La sconfitta parziale nell’aver sottovalutato ciò che imboccare l’ambiziosa strada del dramma da camera avrebbe comportato. L’effetto monologo prevale sulla dinamicità del dialogo, ma alla posatezza del ritmo di regia e montaggio non corrisponde quella curata recitazione intimista che poteva forse favorire la scelta.
Trame e sviluppi sono di paternità israeliana. Gli arredi, la dinamica medico-paziente e il linguaggio del corpo manifestano invece tutto il divario culturale esistente non solo tra oriente e occidente, ma anche tra occidente e occidente: USA e Italia. Tanto da indurci a riflettere su quello scarto, soprattutto recitativo, che è forse la pecca più grande di questo coraggioso tentativo italiano d’appropriarsi d’un materiale poco familiare, sotto tanti punti di vista.
A volte, i contorni delle vicende del paziente del giorno vengono alterati, optando per trame legate al nostro immaginario, ed allora Dario diviene uno spavaldo carabiniere, di professione “infiltrato”, in fuga dal senso di colpa per essere stato tra gli esecutori materiali in una strage d’Ndrangheta. Il dramma umano di scena tra USA, Israele e Italia rimane immutato: si parla d’assunzione di responsabilità, omertà, ipocrisia, aspirazione inconscia ad un’espiazione autodistruttiva. Ma l’abisso vero tra le varie versioni va individuato nel ritmo, di cui l’episodio italiano, nonostante l’intensa (anche se forse estenuantemente marcata) interpretazione di Guido Caprino, è quasi privo. La parola non riesce a farsi azione, né nei gesti né negli sguardi, rimanendo solo enunciata. Mentre lo psicologo fa da spettatore inerme.
Alla sapienza sardonica e malandata dell’eccellente Gabriel Byrne (protagonista della versione HBO), infatti, fa da contraltare la passività rassegnata di un Dott. Mari che appare spento, apatico, stanco; marcato da un’espressività che stona con quegli impercettibili spostamenti interiori che l’interazione tra personaggi come questi dovrebbe comportare. Byrne diviene Don Chisciotte d’un arte taumaturgica che sembra sul punto di deporre le sue armi, inducendoci a riflettere sul significato della compassione e i modi dell’ascolto. Castellitto sembra solo portare su di sé la croce d’un uomo sconfitto dalla sua stessa vecchiaia, e degli interrogativi che sottendono la trama si mette in scena, così, solo la forma apparente.
Il buon casting selezionato opera solo parzialmente il riscatto. Brava la Smutniack, intrigante la performance della Casagrande, perfetto Giannini e credibile la Bobulova; non altrettanto la già citata Maglietta, la cui interpretazione rende il suo personaggio poco accattivante (versus l’ottima Diane Wiest). La Golino, pure discreta, risulta però piatta. La scena madre tra lei e Castellitto, suo marito, urla il dramma ma non lo fa esplodere: la veemenza delle parole non ci rende partecipi della crisi dei personaggi.
Nonostante la serie vanti una fotografia televisivamente insolita, che gioca con tagli di luce e sfumate zone d’ombra suoi volti, il dramma italiano di In Treatment resta un conflitto, purtroppo, solo dichiarato, e mai pienamente interiorizzato, che non esplode negli animi dei suoi protagonisti né, soprattutto, riesce a vivere negli occhi dei loro interpreti.
Eppure qualcosa si muove; e vale certamente la pena osservarlo.