La Grande Bellezza. Sorrentino e l’apologia della Roma mondana
di Annalisa Gambino
Sorrentino conquista un posto d’onore tra i favoriti di questa edizione del Festival di Cannes. Infatti, con i suoi nove minuti di applausi, La Grande Bellezza consolida la reputazione del regista italiano nel contesto internazionale, iniziata nel 2008 con un’altra storica e discussa pellicola, Il Divo.
A proposito del film Peter Bradshaw scrive sul Guardian: “La grande bellezza, come la grande tristezza, può significare amore, sesso, arte o morte, ma soprattutto significa Roma, e il film vuole indagare nell’insondabile profondità della storia e della mondanità romana”.
La Grande Bellezza è, di fatto, un grande elogio di Roma in tutto il suo splendore e superficialità, una miscela di satira sociale e malinconia esistenziale. Il sotto testo che scorre parallelo alla incessante festa è quello della recherche, ricerca di qualcosa di grande e raro ad ogni costo. Jep Gambardella – un fantastico Toni Servillo, giornalista in crisi di ispirazione – è risucchiato dal vortice mondano della capitale. Intorno a lui gravita un mondo farsesco di personaggi. Jep, costretto a ballare in mezzo alla giostra, non riesce a trovare la propria arte e vive lo squallore disgraziato dell’uomo incapace di cogliere i sentimenti autentici sotto il gran rumore. Il suo Io è smarrito tra il pubblico e l’intimo, tra il sacro e il profano. Trascorre la vita in attesa dei lampi di bellezza che di tanto in tanto emergono dalla vacuità dei discorsi e delle feste.
I party esclusivi non sono il tema del film, ma sfondo perfetto per far emergere gli aspetti più esotici e singolari della ”Roma bene”. Un inferno di egocentrismo e fragilità attraverso il quale Jep accompagna un pubblico sempre più cosciente dell’esasperato cinismo cui vanno incontro i protagonisti. Principesse, politici, criminali d’alto bordo, nobili decaduti, vescovi, santi, uomini e donne dello spettacolo, giornalisti, intellettuali, critici e mecenati, si agitano nelle più belle ville e palazzi della città uniti nel comune destino della perdizione. A interpretare le figure del gigantesco carnevale, un cast di decine di nomi d’eccezione: Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Pamela Villoresi, Franco Graziosi, Giorgio Pasotti, Serena Grandi, Ivan Franek, Lillo Petrolo, Isabella Ferrari.
Il modello di partenza è chiaramente La Dolce Vita, ma, di maestro c’è né uno solo e in Sorrentino si avverte il peso di una narrativa vuota e volutamente troppo ricercata, priva di quell’alone mistico riconosciuto in Fellini. Il film pecca nel dialogo pretenzioso, spesso pesante per la sua letterarietà – fin troppe le citazioni, da Proust a Leopardi, pronunciate con un tono aulico e solenne che poco si addice alla decadente eloquenza di Jep. Memorabile è invece lo stile visivo della regia che sovrasta di netto una sceneggiatura un po’ ridondante. La fotografia di Luca Bigazzi (già con Sorrentino per Il Divo e This is must be the place) conferisce alla pellicola un’atmosfera magica, simile a un’onirica tela del Del Chirico, contrastante con l’umanità dolente, malinconica e volutamente kitsch.
Dopo tutto, la grande bellezza del titolo è atemporale, è sospesa tra le epoche, tra le società e le immagini. Sorrentino descrive il film come una sorta di viaggio attraverso una Roma monumentale, barocca, deserta. Una città che sa sempre sorprendere e meravigliare. E la vera bellezza risulta ancora una volta la fascinazione per la Roma eterna, mai stanca di raccontarsi e di essere raccontata.
roma eterna e bellissima, altro che parigi …
non solo e non tanto la dolce vita
piuttosto la terrazza di age scarpelli
ettorone scola