Solo Dio Perdona. La poeticità della violenza
di Annalisa Gambino
Ritorna sul grande schermo Nicolas Winding Refn regista la cui attività, a tratti controversa, rappresenta un coupe de folie nel panorama cinematografico mondiale. Refn, di origine danese e nordamericano d’adozione, completa la sua formazione a New York maturando uno stile di regia inconfondibile per la mescolanza di cinema d’autore e cinema di genere. Precedentemente premiato a Cannes come migliore regista con Drive (2011), quest’anno ha portato al festival Solo Dio Perdona proseguendo il fortunato sodalizio con uno degli attori più in voga del momento Ryan Gosling.
Se con Drive il regista rende omaggio al più cupo noir americano anni ’40 e ’50, strizzando l’occhio a The Driver (1978) di Walter Hill, Solo Dio Perdona è una rivisitazione del genere spaghetti-western sulle orme di Tarantino; a differenza dell’estetizzazione della violenza tarantiniana, Refn procede tuttavia più su un versante simbolico e onirico, dalle tinte lynchiane.
La storia prende vita in una sporca e allucinata Bangkok, il suo punto focale è la vendetta. Un fratello viene ucciso e l’altro (Rjan Gosling) deve trovare il colpevole e fare giustizia. Ma Gosling fallisce e toccherà alla madre -una caricaturale Kristin Scott Thomas, pensata sul physique du rôle di Donatella Versace – prendere in mano le redini della situazione. La vendetta della famiglia è quindi ostacolata da uno spietato capo della polizia coinvolto nell’omicidio. Lo schema narrativo è semplice: la lotta di un uomo contro un altro uomo che crede di essere Dio, un giustiziere brutale dotato quasi di una forza soprannaturale.
Ad arricchire il plot la relazione complicata tra madre e figlio che vincola il secondo ad un legame oltre il sangue, al di fuori del quale cerca una sua dimensione di esistenza. L’irrealtà che aleggia nella città favorisce la messa in scena della lotta tra bene e male. Bangkok è un posto di confine dove l’oriente incontra l’occidente, di giorno turistica e folkloristica, di notte torbida e pericolosa. Queste caratteristiche l’hanno resa il luogo ideale per parlare del rapporto madre-figlio attraverso il complesso di Edipo che si evince dalla storia. Il personaggio principale è un uomo incatenato al grembo di sua madre che, per liberarsi di questa morsa, deve combattere il giustiziere poliziotto. Il film contiene in sé più piani di lettura accomunati da un istintivo bisogno ancestrale. Si parla spesso di cinema del silenzio per connotare Refn, in questo caso più che mai. L’operazione di scarnificazione iniziata con Drive è portata adesso alle estreme conseguenze, allo spettatore non è dato di sapere dove e come il regista intenda concludere. Il film è poco parlato, ed interamente costruito su un personaggio silente e perdente soggiogato dal poliziotto e dalla madre.
Solo Dio perdona è una riflessione visivamente straordinaria sulla violenza come forza ordinatrice del mondo e che si manifesta cromaticamente nel rosso, elemento base della suggestiva fotografia di Larry Smith. Alcune scene sono particolarmente cruente ma la ferocia è necessaria. La violenza è visivamente esplicita, reale, pura e spogliata di ogni ironia. Per fare un confronto, la rappresentazione così estrema della brutalità è esplicitamente anti tarantiniana, non è mai estetizzante o da cartoon, ma rozza fino al parossismo. Più intima e più fisica, passa da persona a persona, come un male ineludibile.
I lunghi carrelli, le zoomate e i ralenti progressivi non fanno altro che rendere in termini visivi la sensazione di far sprofondare spettatore e personaggi in un intrigo doloroso senza via d’uscita. Refn, nonostante sia stato fischiato a Cannes perché troppo pretenzioso, riesce a raccontare come pochi la bellezza e la poeticità della violenza. Solo Dio perdona è sia una piccola storia di violenza privata e familiare, sia una parabola che mira a riassumere in modo esemplare le ombre e gli incubi del cinema postmoderno.
Concordo. Pure accostato a Tarantino, e per molti versi lo richiama, Refn ha tutto un altro stile. Racconta violenza e lo fa senza il tipico slancio ironico di Quentin.