“Ciò che mi nutre mi distrugge”: il primo documentario che entra nel mondo dei disturbi alimentari

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di Sabrina Ferri

Nessuno aveva mai osato avvicinarsi così tanto per descrivere, dal di dentro, cosa significa vivere sulla propria pelle un disturbo del comportamento alimentare. Nessuno, forse, era mai riuscito a far comprendere davvero l’ossessione, la paura, il rifiuto, la sensazione di sentire quel corpo devastato costantemente in bilico tra due mondi opposti: il mondo corroso dalla malattia e il mondo alimentato dalla speranza.

Ma per la prima volta delle telecamere hanno varcato la soglia di un prestigioso centro per la cura dei Disturbi dell’Alimentazione, quello dell’ASL Roma E situato presso il comprensorio di Santa Maria della Pietà e diretto dal dottor Armando Cotugno. Da una semplice idea, partorita dalle menti di Ilaria de Laurentiis e Raffaele Brunetti, è nato così il documentario “Ciò che mi nutre mi distrugge”, un’esasperante viaggio che conduce lo spettatore nei meandri della patologia, raccontando le storie di quattro donne in lotta con se stesse per uscire da quel tunnel oscuro che le ha rese prigioniere.

Il documentario, che è stato trasmesso lo scorso mercoledì su Rai3, registra minuziosamente i pensieri di Silvia, Giulia, Marie Louise e Sonia che, una dopo l’altra, si raccontano al loro terapeuta, cercando di svelare e di comprendere le loro paure, per trovare infine uno sfogo, una via d’uscita e intraprendere la strada della guarigione.

Certo, non è facile accettare la realtà, capire che si ha bisogno di aiuto e che bisogna agire contro quella parte di sé che vorrebbe continuare a star male. Perché nella malattia si pensa di stare bene, ci si illude che la felicità equivalga a sacrificare i giorni, le ore, i minuti, per la ricerca di una fantomatica  perfezione assoluta.

Spesso non si capisce di avere un problema, come racconta Sonia che ha deciso di farsi aiutare dopo che le avevano sbattuto in faccia la realtà, dicendole che lei non stava bene ma che stava male. Altre volte si è consapevoli ma si tende a nascondere tutto dietro un’estrema gentilezza, come Marie Louise, o ancora dietro il silenzio, come Giulia la quale, forse più di tutte, manifesta l’odio verso se stessa, verso quel corpo che non desidera e che vorrebbe annientare. E infine c’è chi, come Silvia, ha capito che per non perdere tutto ciò che si ha faticosamente costruito, occorre lottare e andare contro quei pensieri maniacali che la rendono schiava.

Tuttavia, dietro ognuna di queste quattro storie, c’è  forse la speranza. La speranza che diventa più forte di ogni altra cosa, anche se a volte si cade di nuovo, c’è la sconfitta, il timore di non farcela. Ma il documentario insegna proprio a non abbattersi, a cercare il contatto con il proprio corpo e a guardare avanti. Il percorso di guarigione è lungo, faticoso, ma non molto lontano, c’è la vita. L’importante è non arrendersi mai. Continuare a lottare per riconquistare la propria dignità.

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