Il vecchietto dell’acciaio manda a casa 1400 lavoratori

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di Pierfrancesco Demilito

Così come la vita politica del Paese è legata alla scelte che prenderà un ultrasettantenne con una condanna definitiva per frode fiscale, così la produzione dell’acciaio in Italia (uno dei paesi del G8) e la vita e il lavoro di migliaia e migliaia di persone dipendono dalle decisioni di un ultraottantenne indagato per disastro ambientale e frode ai danni dello Stato. Due vecchietti che in comune non hanno soltanto potere e guai giudiziari.

Il primo, ovviamente, è Silvio Berlusconi e di lui sappiamo davvero tutto, forse troppo. Il secondo invece è Emilio Riva, nato (anche lui) a Milano e proprietario di un’azienda con 36 impianti siderurgici sparsi nel mondo, 22mila dipendenti e un fatturato di 10 miliardi.

Riva è un imprenditore che “s’è fatto da solo”, ha iniziato commerciando scarti ferrosi e in meno di tre anni è passato a produrre acciaio. Mentre i Lucchini e i Falk vendevano o chiudevano, Riva comprava stabilimenti in tutta Europa, diventando nel giro di pochi anni il padrone indiscusso dell’Acciaio. Potere che gli ha permesso di fare il bello e il cattivo tempo a suo piacimento, che gli ha consentito di avvelenare ambiente e persone per decenni, protetto dietro lo scudo del ricatto occupazionale. Riva rappresenta perfettamente l’immagine che ognuno di noi ha di un “padrone” dei primi del Novecento. Emilio è convinto che nella sua fabbrica regni la sua legge e a Taranto, dove è arrivato nel 1995, non ci ha messo molto a mostrare il suo ghigno.

A partire dal 1997 fece rimettere in sesto lo stabile che ospitava gli uffici del laminatoio a freddo (gli operai lo chiamavano la palazzina Laf) e lì Riva spediva gli impiegati sgraditi, quelli scomodi. Nella Laf all’inizio del 1998 si presentavano, ogni giorno, oltre settanta persone pagate per non lavorare. Nella palazzina Laf non c’erano scrivanie, computer, timbri, telefoni, fax, nulla di nulla, solo qualche sedia (non sufficienti per tutti i lavoratori) e pareti bianche. Un vero e proprio lager moderno che ha funzionato fino a quando il Procuratore Franco Sebastio ha fatto irruzione, insieme ai Carabinieri, nella palazzina, “liberando” gli impiegati e sequestrando l’edificio. Una vicenda che ad Emilio Riva è costata una condanna a un anno e sei mesi di reclusione per tentata violenza privata e per frode processuale, visto che durante il processo tentò di cancellare alcune prove all’interno della Palazzina Laf. Questo è Emilio Riva.

Lo stesso vecchietto, arrabbiato e vendicativo, che dopo il sequestro preventivo di beni per 8,1 miliardi ordinato dalla magistratura di Taranto nell’ambito dell’indagine per disastro ambientale sull’Ilva, ha deciso di cessare le attività di tutti gli impianti del Gruppo in Italia, mandando a casa oltre 1400 operai divisi tra gli stabilimenti di Verona, Caronno Pertusella (Varese), Lesegno (Cuneo), Malegno, Sellero, Cerveno (Brescia) e Annone Brianza (Lecco), Riva Energia e Muzzana Trasporti. Con la sua proverbiale aggressività, l’azienda non nasconde le motivazioni che hanno portato al blocco totale delle attività produttive e in una nota scrive: “Il blocco dell’attività si è reso purtroppo necessario poiché il provvedimento di sequestro preventivo penale del Gip di Taranto, datato 22 maggio e 17 luglio 2013 e comunicato il 9 settembre – in base al quale vengono sottratti a Riva Acciaio i cespiti aziendali, tra cui gli stabilimenti produttivi, e vengono sequestrati i saldi attivi di conto corrente e si attua di conseguenza il blocco delle attività bancarie, impedendo il normale ciclo di pagamenti aziendali – fa sì che non esistano più le condizioni operative ed economiche per la prosecuzione della normale attività”.

In questo Paese per vecchi è ormai arrivato il momento di mettere da parte le beghe e gli interessi di questi bisbetici anzianotti. Nel caso specifico, Riva è evidentemente fuori controllo. Probabilmente è giunto il momento di prendere in considerazione l’ipotesi dell’esproprio, così come previsto dalla nostra Costituzione. L’articolo 43 parla chiaro: “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”. Sempre che l’interesse generale prevalga davvero su quelli di questi intoccabili Matusalemme.

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