Placement universitario sotto esame. Le nuove idee made in Basilicata
di Emiliana De Santis
Italia Lavoro, l’ente del ministero del Lavoro per le politiche sull’occupazione, e Anvur, l’agenzia di valutazione dell’università creata dalla riforma Gelmini, stanno esaminando i servizi placement delle università italiane. Atenei in allerta visto che la capacità di collocazione degli studenti nel tessuto imprenditoriale locale e, più in generale, nel mondo del lavoro, costituisce uno degli indicatori chiave del rating dell’istruzione.
Coinvolte nel progetto 75 università, che dovranno farsi esaminare sulla base di 100 indicatori riassunti in quattro macroaree: il «radicamento territoriale», che valuta la rete locale di imprese con cui l’ufficio placement dell’ateneo riesce ad instaurare uno stabile networking, la «personalizzazione dei servizi» ossia la capacità di offrire esperienze su misura per il laureato oltre che la mediazione fra domanda e offerta; la «qualità di misure e strumenti» e quindi il saper gestire efficacemente i tirocini e l’apprendistato, e infine la «qualità organizzativa e gestionale» del personale dedicato. Gli indicatori tuttavia, pur essendo numericamente oggettivi, sono suscettibili di adattamento ai singoli casi e soprattutto alle priorità formative delle varie università. Fermo restando che l’essere un ponte tra studio e lavoro dovrebbe essere una delle principali missioni non di un singolo Ateneo ma del sistema nel suo complesso, affetto in maniera cronica da un mismatching tra domanda e offerta.
Secondo un’indagine condotta di recente da ManpowerGroup, società specializzata nei servizi di collocamento, che ha interessato circa 40.000 aziende in 42 Paesi, è emerso che oltre il 35% (la percentuale più alta da quando è in atto la recessione) delle imprese a livello globale dichiarano difficoltà a reperire sul mercato figure professionali qualificate soprattutto in ambito commerciale e vendite, ma anche ingegneri e operai specializzati. Dunque posti di lavoro che mai nessuno potrà svolgere pur in presenza di un tasso di disoccupazione che cresce giorno dopo giorno. E il problema è acuto in Italia più che altrove. Il mercato nostrano cerca ma non trova profili specializzati nel commercio internazionale, oltre che in finanza e contabilità, assistenti di direzione altamente qualificati, professionisti dell’Ict e sales manager.
Gli uffici placement, da soli, non riescono a essere efficaci se non si abbatte quello che Claudio Gentili, responsabile Education di Confindustria, definisce «il muro di Berlino fra università e aziende, basato sul principio sbagliato che si lavora solo dopo aver finito gli studi», un principio criticato anche dal ministro Maria Chiara Carrozza in occasione del Forum Ambrosetti.
Per questo la Regione Basilicata ha deciso di attivarsi con una serie di misure – La rete dei saperi – volte a colmare la distanza tra l’istruzione e il lavoro. La Basilicata punta sul collegamento tra scuola, Università, enti locali ed organizzazioni professionali e formative. Punto fondamentale del progetto è la creazione di Poli formativi e tecnico professionali e di istituti tecnici superiori. Le reti regionali lucane saranno composte da istituzioni scolastiche, organismi di formazione, imprese, Università e centri di ricerca, Its (Istituti tecnici specializzati), enti locali ed organizzazioni professionali con l’obiettivo di raggruppare l’offerta formativa più rispondente alle vocazioni territoriali di innovazione e sviluppo della Regione con il risultato si formare a tutti i livelli d’istruzione delle figure che troveranno, nel loro territorio, buone possibilità di impiego. Un modello alla tedesca che ci si auspica presto diffuso in molte regioni italiane.