“Ricominciare ad amare la vita”: la storia di Chiara e della famiglia Frazzetto
Omnia vincit amor et nos cedamus amori.
Bucoliche, Publio Virgilio Marone.
di Marta Silvestre
Vivere è amare.
La vita può ritrovare senso nell’esperienza dell’amare e dell’essere amati che dona i tratti dell’eternità. La morte, che sembra divorare tutto, trova nell’amore un nemico capace di accoglierla e superarla.
Il 16 ottobre del 1996, a Niscemi, il titolare di un negozio di pellicce Salvatore Frazzetto – di 46 anni – e suo figlio Giacomo – di 21 anni – vengono uccisi, a colpi di arma da fuoco durante un tentativo di rapina, da Beppe Meli e dai fratelli Salvatore e Maurizio Infuso. Le estorsioni erano iniziate dal momento in cui Giacomo, anche per volere del padre, aveva deciso di troncare i rapporti di amicizia con Meli.
I soprusi erano stati di diverso genere – cambio di assegni, compere di automobili, continui ‘acquisti’ senza denaro di preziosi oggetti d’oro, insomma surrogati della classica richiesta del pizzo – e le pressioni nei confronti della famiglia erano continuate anche dopo il delitto.
La signora Agata Azzolina – moglie di Salvatore e madre di Giacomo Frazzetto – più volte era stata seguita al cimitero, perseguitata da minacciose telefonate anonime, diverse persone avevano tentato di dissuaderla dall’accusare gli estorsori, ciononostante decise che non si sarebbe più sottratta dal fare nomi e cognomi. Non riuscendo più a resistere alle continue azioni intimidatorie e straziata dal dolore, nella notte fra il 22 e il 23 marzo del 1997, Agata si toglie la vita in casa propria. E’ Chiara – la figlia di 22 anni – a trovarla appesa a un cappio fissato al tetto della cucina. Le ultime parole della madre, scritte su un foglietto lasciato sul tavolo, sono un invito a lasciare Niscemi che ha saputo offrire loro solo indifferenza.
Nelle 24 ore successive alla perdita della madre, Chiara immagina due possibili scenari antitetici per il suo futuro: andare via da Niscemi o rimanere. Durante il funerale della madre, la ragazza appare come un grumo nero di disperato dolore, un po’ come l’emblema di tutte le donne colpite dalla violenza mafiosa che temono di rimanere inermi.
Però Chiara ha cuore e cervello, paura e coraggio e sa come metterli a frutto. Decide di rimanere e puntare l’indice contro chi le ha distrutto la famiglia. Inizia ad amare la giustizia. Non solo rimane, non solo sale sul banco dei testimoni al processo a testa alta, ma decide anche di mettere radici più profonde.
Ricomincia ad amare la vita.
Nella stessa chiesa in cui solo sei mesi prima, durante la celebrazione del funerale della madre, Chiara aveva accusato lo Stato per la sua assenza e aveva comunicato la rabbiosa decisione di andare via, il 20 settembre 1997 si unisce in matrimonio con l’ispettore di polizia Paolo Presti che, fin dall’inizio, si era occupato della vicenda legata alla tragedia della sua famiglia. Una relazione d’amore nata su un terreno apparentemente sterile, in commissariato fra interrogatori e inchieste, le darà la forza di non andare via da Niscemi e, anzi, di rimanere a vivere con Paolo nella casa dei propri genitori.
Resiste e rimane non per dare una risposta a qualcuno, non per dimostrare qualcosa, ma per una libera scelta condivisa con amore e per amore.
Talvolta, davvero la vita si manifesta in forme d’amore che le permettono di vincere sulla morte.