Il coraggio di Francesco Borrelli e l’impegno del figlio per non dimenticarlo
L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno,
è saper convivere con la propria paura
e non farsi condizionare dalla stessa.
Giovanni Falcone
di Marta Silvestre
La mattina del 13 gennaio del 1982, Francesco Borrelli esce per andare a comprare le sigarette per sè e il giornalino dei fumetti per i suoi bambini, Alfredo e Caterina – rispettivamente di 7 e 6 anni – e fa due chiacchiere con gli amici nella piazzetta ad appena un chilometro da casa. In quei giorni, il maresciallo dei CC che presta servizio al Nucleo Elicotteri di Vibo Valentia all’Anonima Sequestri in Aspromonte, si trova a Cutro – paese in provincia di Crotone – qualche giorno in ferie a casa con la famiglia. Quel giorno, la piazza fa da scenografia a quella che poteva sembrare la scena di un film: sullo sfondo, a tutta velocità arriva una macchina dai cui finestrini sporgono le canne dei fucili, il maresciallo Borrelli si volta dal lato opposto della piazza dove nota subito che, sugli scalini di un bar, c’è il boss Antonio Dragone e capisce immediatamente che si tratta di un attentato. Proprio come in un film, ci vuole solo qualche secondo per realizzare che sta per succedere qualcosa di tragico.
In quel momento, lui non è in divisa e non è pagato per morire.
Eppure, istintivamente, fa il proprio dovere fino in fondo.
Da cittadino comune, si mette a gridare per fare allontanare la gente.
Inizia una pioggia di spari, il boss si salva – morirà poi il 10 maggio del 2004, ucciso da un commando lungo la strada del mare – il maresciallo Borrelli viene colpito all’altezza dell’arteria femorale; nel frattempo, il comandante dei carabinieri di Cutro è al riparo dietro la saracinesca del bar che aveva prontamente abbassato per nascondersi e per proteggersi dal pericolo. Nei primi minuti dopo il ferimento, nessuno si affretta a sorrerere Francesco finchè non arriva un ragazzo – Tonino Caccia – che ha il coraggio di chiedere aiuto all’autista di un furgoncino sul quale il maresciallo, poco dopo, morirà dissanguato.
Per Francesco Borrelli, funerali di Stato come ‘vittima del dovere’ e una medaglia alla memoria per il valor civile – non militare, perché non era in servizio e non aveva sparato nessun colpo di arma da fuoco; poi, nessun colpevole e nessuna targa a Cutro, paese senza memoria.
Per il comandante dei carabinieri che si era barricato dietro la saracinesca, nei mesi successivi, una delibera del sindaco che esprimeva il dispiacere per l’allontanamento da Cutro e il ringraziamento dell’intero Comune per il servizio che aveva svolto.
Quel bambino di 7 anni, che quel giorno aveva da poco finito di giocare con gli altri bambini della sua palazzina da sempre abitata da carabinieri, oggi – che ha quasi l’età che aveva suo padre quando è stato ammazzato – è un uomo, un ingegnere ambientale, che non ha fatto del suo dolore personale il motivo del suo impegno sociale, civile e politico, ma ha seguito esattamente il percorso inverso fino a far congiungere le due cose: tramite la sua militanza ha dato voce al dolore canalizzandolo nella voglia di impegnarsi socialmente nell’antimafia. Insieme ad altri ragazzi, ha fondato un presidio di Libera nel quarto municipio di Roma, per declinare al plurale la memoria di suo padre e per cercare di dare alla società la possibilità di essere migliore.