Il Milan, club più titolato al mondo, è alla deriva. Cronaca di un naufragio annunciato
16 dicembre 1899 – 12 gennaio 2014. Nascita e morte dell’Associazione Calcio Milan, quello che a tutt’oggi è il club calcistico più titolato al mondo. La sconfitta di Reggio Emilia contro il Sassuolo, ha portato all’esonero di Massimiliano Allegri, tecnico dei rossoneri da quattro stagioni; molti sostenitori milanisti hanno esultato alla notizia del licenziamento dell’allenatore livornese, ormai giunto al capolinea dell’avventura meneghina, senza più polso, idee e fantasia.
Sta per iniziare il nuovo corso con Clarence Seedorf sulla panchina del Milan, ma il tracollo è ormai inarrestabile per una società che per quasi trent’anni è stata il fiore all’occhiello del calcio italiano, sia come vittorie nazionali ed internazionali, sia come gestione aziendale, e che in meno di due stagioni ha rovinato tutto, calpestando princìpi, strutture manageriali e depauperando un patrimonio tecnico impressionante. Un crollo verticale partito nel maggio del 2012 con la partenza di senatori storici di carisma eccezionale, quali Seedorf stesso, Gattuso, Inzaghi, Zambrotta, Van Bommel, proseguendo poi con la doppia e deleteria cessione al Paris Saint Germain di Thiago Silva e Ibrahimovic, rispettivamente miglior difensore e miglior centravanti del mondo. La squadra si è ritrovata di colpo dall’essere la più forte del campionato ad una delle tante, con una rosa appena sufficiente. Il raggiungimento del terzo posto nel campionato scorso, dovuto più a suicidi altrui (leggi Inter e Roma) che all’effettiva forza della compagine rossonera, è stato uno specchietto per le allodole e per qualche allocco che ha pensato che tutto sommato questa squadra era tra le prime in Italia.
Nell’estate del 2013 la campagna impoverimenti dettata da Berlusconi ed eseguita da Galliani, ha portato poco o nulla, se non un Matri espressamente voluto da mister Allegri, un onesto lavoratore come Poli (non esattamente Rijkaard o Pirlo, tanto per citare due nomi storici del glorioso passato a strisce rossonere), oltre alle conferme di elementi a dir poco incompatibili col blasone milanista: dal bizzarro portiere brasiliano Gabriel, passando per il terzino Constant (colpitore ufficiale di natiche avversarie negli innumerevoli tentativi di crossare), per il difensore centrale Zapata (più adatto a far correre brividi da film di Dario Argento ai tifosi, piuttosto che a bloccare le punte), per l’attaccante Niang (una rete in un anno e mezzo, non esattamente una media da Silvio Piola) fino ad arrivare al talentuoso El Shaarawy (15 gol nella prima metà della scorsa stagione, oggetto misterioso per i restanti 11 mesi, conditi da una serie di infortuni che lo hanno relegato nel dimenticatoio di un popolo ormai disamorato e che non perdona nulla a nessuno).
La società, Berlusconi papà e Berlusconi figlia, più Galliani (delegittimato senza pudore dalla scalpitante rampolla di Arcore) si è nascosta dietro le frasi di comodo, dietro gli slogan, dietro i risultati del passato, senza mai avere l’umiltà di riconoscere apertamente il ridimensionamento della squadra. E’ questo il punto che più ha ferito i tifosi, pronti anche a vivere annate più opache rispetto ai trionfi dell’era berlusconiana, ma traditi ed ingannati da una comunicazione che mai negli anni era stata così distorta. Prima il mancato affare Tevez, saltato grazie alla presa di posizione di Barbara Berlusconi che convinse papà a trattenere Pato (disperso nel frattempo nei meandri dell’infermeria di Milanello e mai più uscitone) per il quale invece da Parigi offrivano più di 30 milioni di euro, bloccando una trattativa che oggi vedrebbe Tevez al Milan (e quindi non alla Juve che ha chiuso il girone di andata con 3o punti sul club più titolato al mondo) e le casse di via Turati (pardon, di via Rossi) imbottite di danaro. Invece non se ne fece nulla, a giugno partì l’assalto del Psg per Thiago Silva e il Milan imbastì in tempi rapidissimi uno spettacolo teatrale coi fiocchi: dapprima il rinnovo farsa col brasiliano (contratto fino al 2017, redatto probabilmente a Collodi), quindi lo sbandieramento della permanenza di tutti i campioni e l’incitamento alla sottoscrizione degli abbonamenti. Poi la rapida retromarcia con la macchina rossonera che investe i propri tifosi: non solo Thiago Silva, ma anche Ibrahimovic, impacchettati, infiocchettati e consegnati al Paris Saint Germain con viaggio di sola andata. Soldi mai reinvestiti per potenziare una squadra via via sempre più disarmante. Il resto è storia recente: l’illusorio terzo posto con vista sulla Coppa Campioni, la qualificazione agli ottavi di finale della stessa competizione, strappata per il rotto della cuffia e grazie alla sorte bonaria dell’urna di Nyon che ha regalato ad Allegri e soci un girone più che abbordabile, quindi l’agonia del campionato: cammino arrancante, respiro affannoso, encefalogramma quasi piatto, paziente stroncato alle 22:30 circa di una domenica di metà gennaio da un virus all’apparenza innocuo, chiamato Sassuolo, mortifero solo con una squadra a corto di difese immunitarie e che ha provato a combattere il male con rimedi blandi, prescritti frettolosamente da medici poco attenti.
Domenico Berardi, attaccante diciannovenne del Sassuolo, si è divertito contro le sagome imbalsamate in maglia bianca e con lo stemma del Milan sul petto, unico elemento da cui evincere che quello fosse il club più titolato al mondo: Bonera, Zapata, Abbiati, Emanuelson, ridicolizzati da una formazione che cinque anni fa annaspava in serie C, citata solo nelle campagne nebbiose della Pianura Padana nei dopolavoro ferroviari davanti ad un bicchiere di buon Lambrusco. Un campionato in cui il Livorno, ultimo in classifica, in 8 partite conquista un solo punto: col Milan; un campionato in cui Chievo-Milan finisce in parità e a venir cacciato è il tecnico dei veneti, come a dire Neanche il Milan sei riuscito a battere; un campionato in cui nelle prime 19 giornate, vale a dire in tutto il girone di andata, il Milan non è riuscito ad ottenere due vittorie di fila.
La sfarzosa nave rossonera sta colando lentamente a picco, eppure la sua orchestrina continua a suonare, come se fosse ignara del destino che pian piano si compie. Come quegli aristocratici caduti in disgrazia e che chiedono la carità in smoking. Negli anni il Milan è passato da Maldini a Constant, da Nesta a Zapata, da Thiago Silva a Bonera, da Cafu ad Abate, da Pirlo a De Jong, da Ibrahimovic ad El Shaarawy, da Inzaghi a Matri, da Adriano Galliani a Barbara Berlusconi. Oggi soltanto il popolo rossonero può evitare il tonfo del club: lo stesso popolo che in serie B contro la Cavese riempì San Siro, ha la possibilità di far sentire la sua voce, col rumore assordante del silenzio, con l’arma affilata dell’indifferenza, con la pesantezza del vuoto degli abbonamenti (di stadio e tv), con la dignità di non capitolare, di rivolere indietro una storia fatta di 7 Coppe Campioni e 18 scudetti, vittorie incastonate e conservate in una bacheca destinata a non essere più aggiornata.
Si dice che toccato il fondo si possa solo risalire, ma per il Milan di oggi la risalita sembra troppo ardua per essere anche solo abbozzata. Ed ecco che il ritornello di club più titolato al mondo inizia a suonare come una triste marcia funebre.
Marco Milan