La difesa comune in UE. Cosa frena la nascita di un Esercito europeo?
di Azzurra Petrungaro
È passato circa un mese dalla visita di Obama a Roma. Un mese dal suo dimostrarsi preoccupato per i pesanti tagli alla difesa messi in atto da alcuni paesi Nato, un mese da quando ha auspicato che l’Italia continuasse a ricoprire il suo ruolo nel mondo, così come ha sempre fatto, senza tentare alcun passo indietro. La persistenza delle parole del Presidente USA sulla necessità di una forza Nato credibile e deterrente si aggancia ai dati relativi agli investimenti militari dei paesi membri.
Il punto percentuale fissato dall’organizzazione è intorno al 2 % del PIL di ogni Paese, ma la crisi economica colpendo duramente l’Europa ha reso i tagli nel settore militare inevitabili. Lo scorso anno solo un esiguo numero di stati Nato ha rispettato l’obiettivo, tra questi gli Stati Uniti (4,1%), la Gran Bretagna (2,4%) e l’Estonia (2%). Poco distanti la Francia (1,9%), la Turchia e la Polonia (1,8%). L’Italia si è attestata attorno all’1,2% del suo PIL.
Osservando questi dati il discorso di Obama appare più chiaro. La sua visita nella Capitale ha dunque inevitabilmente riaperto la questione degli F-35 di cui si parla e si discute dal 2009. Il dibattuto acquisto da parte dello Stato italiano dei nuovi cacciabombardieri è legato al programma di costruzione di velivoli “Joint Strike Fighter (JSF)”, che serviranno a sostituire quelli attualmente in servizio (Tornado, AMX, AV-8B). Il progetto è portato avanti dal nostro Paese in collaborazione con Regno Unito, Canada, Danimarca, Norvegia, Olanda, Australia, Turchia, Israele e ovviamente Stati Uniti. Ancora una volta le parole del Presidente USA sembrano avere un palese obiettivo.
Alla luce di queste considerazioni appare inevitabile riflettere sulle condizioni della sicurezza comune europea. Negli ultimi anni sono state poche le missioni europee extra-territoriali e di non eccezionale entità. Il contributo europeo alla solidità mondiale si concentra essenzialmente nella formazione e nel supporto, non in un effettivo dispiegamento di mezzi militari. Si prenda ad esempio la questione libica: l’Ue per mancanza di unità e disponibilità di risorse è stata obbligata ad aspettare le iniziative intraprese da Stati Uniti e Nato, mentre sempre più spesso si assiste a iniziative singole, come quella francese in Mali e nella Repubblica Centrafricana.
Ciò che manca è una qualsiasi forma di coordinamento a livello europeo e negli ultimi tempi si opta per accordi bilaterali, come quello belga-olandese. Neanche il Consiglio europeo dello scorso dicembre è riuscito a traghettare gli stati membri verso una politica di cooperazione in termini di politiche di sicurezza e difesa comune. La posizione del Premier inglese David Cameron ha spento le speranze di una prossima costruzione di un vero e proprio esercito europeo.
Una forza comune di difesa potrebbe rappresentare un’alternativa all’investimento annuale di ingenti capacità finanziarie da parte di ogni singolo stato membro, per il mantenimento delle proprie forze militari e per quelle Nato. Un eventuale esercito europeo potrebbe essere sostenuto dalle risorse dei paesi della zona UE, permettendo una maggiore sinergia in termini di cooperazione e dispiegamento di mezzi.
Ma gli interessi economici dei singoli stati nelle sezioni dell’attività militare contrastano con l’auspicabile formazione di uno European Army e la posizione di Cameron ne è l’esempio più evidente. La tutela delle proprie industrie di settore da parte di alcuni paesi causa una frammentazione di intenti nella zona Ue in tema di sicurezza comune e una perdita di competitività sui mercati internazionali. In questo modo i membri più deboli dell’Unione Europea subiscono la politica militare degli stati con elevate capacità finanziarie e rendono la politica UE continuamente soggetta a ingerenze esterne.
[…] in quel caso più che l’esercito ci vorrebbe uno psichiatra ma uno buono. Se ne parla anche qui, ma non ne vedo traccia nel dibattito elettorale. Ancora recentemente Renzi ha fatto riferimento […]