Scozia al voto. Tace la Corona, trema Westminster
Gran Bretagna in fermento per il voto del prossimo 18 settembre con il quale la Scozia deciderà se diventare o meno uno stato indipendente. Battaglia sul filo di lana tra Edimburgo e Londra, entrambe impegnate in una massiccia campagna mediatica che vede in vantaggio la prima sulla seconda se non altro perché – in caso di maggioranza dei sì – sarebbero molte le poltrone a saltare tra Downing Street e Westminster.
Prevedere il risultato è operazione del tutto incerta. YouGov, il più accreditato istituto britannico per la realizzazione dei sondaggi, ha rilasciato versioni leggermente diverse eppure nettamente contrapposte dell’arco di soli 7 giorni: il 9 settembre il fronte degli indipendentisti scozzesi era dato al 51, l’11 al 48, con una crescita di 10 punti percentuali nel solo mese di agosto. Nel paese del first past the post non c’è da stupirsi che un solo numero possa fare la differenza, soprattutto in un referendum dove il secco quesito “Siete d’accordo che la Scozia diventi una nazione indipendente?” potrebbe decretare non solo la fine di un Regno, quello britannico, ma anche quella di un simbolo, la Union Jack.
È dal 1707 che le due corone sono unite in uno scranno, insieme al Galles e all’Irlanda del Nord. Da allora il monarca inglese esercita la sua autorità sulle Highlands, cui sono state variamente concesse forme di autonomia politica e fiscale per scongiurarne la rivolta. Tuttavia è solo con Tony Blair che la Scozia ottiene di eleggere un suo Parlamento nel quadro di una più ampia forma di devolution ritenuta quasi imprescindibile. Un parlamento che non ha tuttavia alcun potere in materia fiscale e di difesa e che in ultima istanza non può legiferare se non con l’assenso di Londra. Oggi invece è Alistair Darling, laburista di Edimburgo ed ex membro proprio dell’entourage blairiano, l’artefice della campagna “Better Together” con cui la coalizione dei tre maggiori partiti britannici – conservatori, laburisti e liberali – promette alla Scozia un’autonomia completa in cambio del no al referendum. Ma non si tratta solo di politica e di promesse. Alex Salmond, capo del governo di Edimburgo, esponente dello Scottish National Party, è ormai il nuovo Braveheart. E mentre assesta duri colpi all’orgoglio inglese, omaggia con eleganza con un tweet il secondogenito di Casa Windsor e fa con onore la corte ad una silente Regina Elisabetta.
Oltre la battaglia politica, quali sono i veri punti in discussione? Per la Scozia indipendente sarebbero sicuramente la moneta, il sistema bancario e la bandiera con annessi simboli del forte nazionalismo britannico. La Royal Bank of Scotland, salvata dalla bancarotta grazie a un cospicuo investimento di Westminster, ha annunciato il suo imminente ritiro dal suolo scozzese, probabile anche in caso di vittoria dei no. Stessa cosa per i Lloyd’s che per bocca dell’amministratore delegato, John Nelson, hanno fatto sapere che la separazione potrebbe portare al crollo della sterlina. Ipotesi verosimile visto il tonfo disastroso della scorsa settimana a seguito dell’annuncio dell’avanzamento dei sì nei sondaggi. Un buon monito per David Cameron che si è diretto immediatamente a Edimburgo saltando senza indugio il solito mercoledì di question time alla Camera dei Comuni. In effetti non è da sottovalutare la questione monetaria: una Scozia indipendente manterrà la sterlina? Se si, dovrebbe stipulare con l’Inghilterra un’unione monetaria che tuttavia le toglierebbe una parte dell’appena conquistata sovranità. In alternativa potrebbe adottare una sua valuta, sostenuta dai proventi del petrolio del Mare del Nord e ancorata di nuovo alla sterlina, non certo libera di oscillare su un mercato internazionale dei capitali che la inghiottirebbe in meno di qualche anno. Oppure entrare nell’euro ma per farlo dovrebbe esser membro dell’Unione, fatto che si prospetta assai difficile sia per l’iter burocratico sia per il terrore di Bruxelles che il caso scozzese possa espandersi a macchia d’olio andando a toccare altri nervi scoperti dell’irredentismo europeo: Crimea, Kosovo ma soprattutto Catalogna dove il referendum è ormai prossimo. Un esito positivo, rafforzato dall’eventuale si scozzese, potrebbe spingere anche l’Irlanda del Nord a ricercare l’indipendenza per non parlare dei focolai di impossibile ma pure battagliera rivendicazione come quelli del Veneto e delle Fiandre.
La Regina continuerebbe ad essere sovrana di Scozia come prevede la legge da 307 anni e la costituzione provvisoria. Lo stesso Salmond ha dichiarato che la Scozia è orgogliosa della sua Regina, nel frattempo in vacanza proprio a Balmoral. Ma ciò non toglie che la costituente in vigore dal 2016 in caso di vittoria dei sì, decida diversamente. Improbabile ma plausibile. E che fine farebbe la Union Jack? Non sarebbe più la stessa. Pensiamo in un’ottica di marketing e non solo di mero nazionalismo: la bandiera britannica è un brand famoso in tutto il mondo, presente e riconoscibile quasi come Coca Cola e Google. L’Independent scrive che: «Il dinamismo del rosso, del bianco e del blu sono riconosciuti immediatamente e ovunque. La Union Jack è anche un simbolo di solidità e fiducia nel mondo degli affari: aiuta le società britanniche a commerciare all’estero e trovare porte aperte». E qui cominciano i problemi di Londra. Oltre la quasi scontata cacciata di Cameron, trema anche il Labour di cui la Scozia è bacino d’elezione. Il Galles e l’Irlanda del Nord potrebbero voler seguire l’esempio. In caso di indipendenza, la Scozia otterrebbe quasi tutti i proventi derivanti dai giacimenti di petrolio del Mare del Nord, siti nelle sue acque territoriali. Forti del miglioramento delle tecniche di perforazione, i separatisti sostengono l’aumento della produzione nei prossimi due o tre anni mentre saranno progressivamente più accessibili le riserve a Ovest per un ammontare pari a 57 miliardi di sterline di entrate fiscali.
La Scozia perderebbe quindi il sistema bancario e commerciale legato in maniera indissolubile all’Inghilterra e con esso il simbolo che la rende unica nel mondo. Il debito, il welfare, il sistema scolastico sono in crisi e Londra non può più permetterseli ma è altrettanto vero che il soccorso finanziario arriverà più facile con la garanzia di Westminster piuttosto che ad uno stato di poco più di 5 milioni di abitanti. Finora inoltre i costi petroliferi sono stati sostenuti da Londra che ne ha avuto inizialmente grossi benefici per poi constatare non solo un cospicuo calo dell’estrazione e quindi degli introiti ma anche una crescita dei costi di perforazione.
Alle urne la decisione, ai posteri il verdetto. Non sempre infatti ciò che in prima battuta appare giusto e lodevole è poi ciò che si rivela più corretto e sostenibile. E in materia di Stati “È difficile che la fiducia di altre Nazioni in un Paese sia superiore a quella che il Paese ha di sé” (Henry Kissinger).
(di Emiliana De Santis)