Le lunghe 72 ore di Parigi. Charlie Hebdo, tra kalashnikov e Social

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FRANCE-CRIME-MEDIA-SHOOTINGNumero 10 di Rue Nicolas Appert, undicesimo arrondissement, Parigi. Una strada anonima, tetti d’ardesia e ringhiere in ferro si alternano ad anonime costruzioni di cemento. Non un grande boulevard della rive droite, né un caratteristico vicolo di Montmartre. Siamo un po’ più a nord di Place des Vosges, la piazza più antica di Parigi, che con i suoi caseggiati puntellati da comignoli abbraccia il geometrico giardino del quartiere Marais.
È al 10 di Rue Nicolas Appert che ha sede “Charlie Hebdo”, settimanale satirico parigino. È al 10 di Rue Nicolas Appert che la mattina del 7 gennaio si consuma l’omonima strage. Said e Chérif Kouachi jihadisti di origini algerine, nati a Parigi rispettivamente trentaquattro e trentadue anni fa, uccidono a colpi di kalashnikov dodici persone. Il direttore del giornale, alcuni dei suoi vignettisti più famosi, collaboratori occasionali, un inserviente, due agenti di polizia. Fuggono su una macchina nera, dopo aver inneggiato al nome di Allah e dichiarandone l’avvenuta vendetta. Tutta colpa di quelle vignette, quelle che si sfornavano quotidianamente al Charlie Hebdo, quelle che facevano satira su tutto e su tutti, anche su Maometto.

8 gennaio. Giorno di lutto nazionale, giorno di sparatorie. Come quella di Mountrouge alla periferia sud di Parigi dove muore una giovane vigilessa. A sparare è Amedy Coulibaly, nato a Juvisy-sur-Orge trentadue anni fa. No, nulla a che fare con l’attacco terroristico all’Hebdo, dichiarano le autorità. Peccato che il giorno dopo Coulibaly si asserragli dentro l’Hyper Cacher di Porte de Vincennes dove perdono la vita quattro ostaggi. Nel frattempo i fratelli Kouachi ancora in fuga, si barricano dentro una stamperia di Dammartin-en-Göele. Parigi è una città sotto assedio, presidiata dai reparti speciali. Le luminarie di Natale hanno fatto appena in tempo a scomparire, per evitare a questa tragedia il gusto amaro del grottesco. Questo 9 gennaio sembra non finire mai.

L’emittente francese BFM-TV riesce a mettersi in contatto con i Kouachi componendo il numero della tipografia. Chérif Kouachi dichiara di essersi addestrato nello Yemen per conto di Al-Qaeda, di essere stato finanziato da Anwar al-Awlaki prima che questo fosse ucciso, di combattere in difesa del profeta, di non aver ucciso nessun civile quella mattina del 7 gennaio, di essere diversi dagli occidentali che in Siria, Iraq e Afghanistan uccidono donne e bambini. Coulibaly invece chiama direttamente la BFM e chiede di essere messo in contatto con le autorità: rivendica i suoi legami con i fratelli Kouachi, la sincronia stabilita delle loro operazioni, l’addestramento nello Stato Islamico. Il resto del discorso registrato è involontario, riaggancia male il ricevitore Coulibaly e le sue sollecitazioni agli ostaggi a dover manifestare per difendere la tranquillità dei musulmani vengono ascoltate da tutto il mondo.

Nel tardo pomeriggio due blitz delle teste di cuoio mettono fine all’incubo di Parigi. I Kouachi vengono uccisi, Coulibaly anche. Erano tutti pronti a morire da martiri. In queste ore si cerca senza sosta Hayat Boumedienne, compagna ventiseienne di Coulibaly. Non è chiaro se fosse con lui durante l’attacco dell’Hyper Cacher, non è chiaro se fosse con lui nella sparatoria di Mountrouge, non è chiaro se fosse o meno in Francia in questi giorni. L’unica certezza è che anche lei sia una jihadista, una combattente addestrata dallo Stato Islamico.

Tre ex piccoli delinquenti parigini, un passato disagiato, una gioventù problematica. Non si cercano delle attenuanti, ma si cerca di capire, di comprendere, di fare luce su come molti di quei giovani che dieci anni fa misero a ferro e fuoco le banlieues parigine, oggi si siano convertiti all’Islam radicale. Si tratta di non cedere alla tentazione di correre dietro le barricate, ma di sforzarsi di afferrare i meccanismi di reclutamento dello Stato Islamico, di cogliere quanto il disagio periferico sia il fertile terreno sul quale seminare il verbo della violenza jihadista, di osservare come quella “feccia” stigmatizzata da Sarkozy nel 2005 e relegata al ruolo di canaglie da strada, abbia nel 2015 ricostruito una nuova identità nei campi d’addestramento yemeniti.

Si tratta di accettare quanto Parigi sia poi Londra, Roma, Berlino. Di quanto il Web offra le connessioni con il Paese d’origine e di quanto i giovani musulmani spesso si sentano più a casa in Stati dove non hanno mai messo piede, rispetto alla loro terra natia. Di come le differenze di classe irrorino i canali della rabbia, di come il sistema monadico di convivenza e la coesistenza silenziosa non c’entrino nulla con l’integrazione.

L’integrazione è un processo con due attori e due volontà che puntano verso lo stesso fine. Non funziona se avviene a senso unico, non funziona se la volontà messa in atto è parziale.

E intanto i social network vengono invasi dalle reazioni dei singoli, si trovano ad accogliere le parole e le immagini di un occidente spaesato, ferito, incredulo. Non c’erano ancora i social l’11 settembre 2001, non c’erano a Madrid nel 2004, non c’erano un anno dopo a Londra. Ma ci sono oggi, con tutte le loro contraddizioni, strumentalizzazioni e paradossi. A sbatterci in faccia ancora una volta che i morti non sono tutti uguali, che partono gli hashtag per Charlie Hebdo ma dei duemila nigeriani uccisi dal gruppo integralista islamico dei Boko Haram in pochi si ricordano.

La libertà di stampa, espressione, pensiero. L’attacco a Charlie Hebdo ha scosso per il bersaglio scelto, perché c’è qualcuno che vuole imporre a qualcun altro di non poter dire proprio tutto quello che vuole e lo fa con un kalashnikov, in pieno giorno, con tutta calma, al numero 10 di Rue Nicolas Appert.

(di Azzurra Petrungaro)

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