L’Italia Stato senza Nazione e la lezione francese
Di fronte all’attacco terrorista di Parigi, la Francia si è confermata una Nazione. Tralasciando qui di discutere l’episodio in sé e le logiche politiche ed economiche delle quali l’attentato è certamente parte, va sottolineato come in Francia il richiamo alla difesa dei valori della Repubblica abbia preceduto qualunque altro argomento, dubbio e sospetto. E ciò non solo a un livello istituzionale ma anzi in modo partecipato e sentito da tutta la popolazione: basti pensare che solo poche ore dopo l’attentato, alle 19 di un giorno lavorativo e in una Parigi ancora blindata e in allarme, 35 mila persone si sono radunate spontaneamente per una veglia in Place de la République, e che ieri la Marcia Repubblicana ha raccolto per le strade due milioni di persone. In Italia invece, come da tradizione, è subito divampata la sterile polemica politica. Sono fioccati da una parte e dell’altra lanci di agenzia su multiculturalismo, immigrazione, sulle presunte inefficienze dei servizi segreti, sui tagli alle forze dell’ordine, su quello che avrebbe dovuto dire o non dire il Papa, sull’opportunità o meno di scatenare una guerra in qualche parte del mondo. Sui social network, intanto, proliferavano bizzarri commenti complottisti e si rilanciavano gli articoli di improbabili blog di informazione libera che, analizzando i video dell’attentato, ne sentenziavano la falsità.
Come si spiega questa clamorosa diversità di risposta? Quello che ci differenzia dai francesi, come da tutti gli altri Stati nazionali occidentali, è la mancanza di una identità condivisa, dovuta a una incompleta e parziale operazione di costruzione della Nazione della quale cercheremo qui di ripercorrere la storia.
Durante l’Impero romano e l’alto medioevo, l’Italia non era stata altro che una penisola allungata nel Mar Mediterraneo. Il suo spostamento da un’area di significato meramente geografica avvenne nel corso del basso medioevo grazie alla letteratura e all’efficacia espressiva che Dante Alighieri seppe dare alla lingua volgare, gettando le basi per l’unificazione in un’unica lingua di tutti i diversi volgari che si parlavano nella penisola.
Se per la lingua italiana iniziava un lungo e difficile percorso unitario, in politica l’unità della penisola non era affatto all’ordine del giorno. Piccoli regni e dominazioni straniere si succedevano nei secoli, accanto alla perenne presenza dello Stato della Chiesa. Fu la Rivoluzione francese a scatenare i primi sentimenti nazionali nelle élite culturali italiane, e molte furono le speranze affidate a Napoleone Bonaparte, il quale però, incoronatosi imperatore, non manifestò la minima intenzione di assecondarle.
La penisola italiana, alla vigilia della Restaurazione, si trovava grosso modo divisa in un centro-nord tagliato verticalmente in Impero francese a occidente e Regno D’Italia a oriente, e in un Regno di Napoli a sud. Coi due Regni, ovviamente, alle dirette dipendenze di Napoleone Bonaparte. Soffermiamoci un momento su una denominazione, quella di Regno d’Italia. È certamente significativo il fatto che nessuno, né Napoleone né tantomeno i due re, abbia pensato neanche per un momento al fatto che l’attributo “d’Italia” potesse in qualche modo risultare inopportuno o fuorviante. E questo perché l’Italia in quanto entità politica, come detto, non è mai stata considerata la penisola tutta. Non certo lo è stata durante l’Impero romano, che sicuramente non stava a considerare confini nazionali come correntemente li intendiamo. E tantomeno nella concezione dello Stato della Chiesa o dei vari regni che nella penisola sono sorti e morti nei secoli. L’Italia politica, fino al diciannovesimo secolo, è consistita tutt’al più – e mai stabilmente – in un territorio che galleggiava tra lo Stato pontificio e i feudi meridionali dell’Impero. Naturale, allora, che per le potenze riunite nel 1815 a Vienna a ridisegnare l’Europa un problema Italia – nel senso di una riflessione circa la sua composizione territoriale – semplicemente non si pose. E non a caso fu proprio uno dei maggiori negoziatori di Vienna, il conte Klemens von Metternich, che trent’anni dopo ebbe a sentenziare “l’Italia è una espressione geografica”.
Certo però il pensiero che tutto potesse tornare ad essere né più né meno di com’era prima della Rivoluzione francese ebbe a durare davvero poco. “Libertà, uguaglianza e fraternità” fu uno slogan di grande successo, ed ecco allora che, con i convogli di pregiate carrozze ancora sulla via del ritorno dal Congresso di Vienna, già qui e lì per l’Europa si pensava a rovesciare il nuovamente antico sistema, e i regnetti in cui la penisola italiana era stata ridivisa si trovarono così anch’essi a dover affrontare un proliferare di cospirazioni e insurrezioni armate nel nome della ormai necessaria idea di Nazione, nella quale sola si pensava si potesse reificare il suddetto fortunatissimo slogan.
E l’Italia nazione si fece, dopo quarant’anni di moti coi più noti nel 20-21 e nel 48-49 –quando anche la Roma di Pio IX riuscì per breve tempo a proclamarsi Repubblica popolare. Pensiero, azione e calcolo di Mazzini, Garibaldi e Cavour riuscirono a rendere l’Italia uno Stato-Nazione unitario e riconosciuto dalle grandi potenze europee, con buona pace del Papa che vedeva il suo Stato ridotto a qualche chilometro quadrato intorno al Cupolone. Ma ecco che tra la festante nuova élite dirigente iniziò a serpeggiare il sospetto che s’era sì fatta l’Italia, ma non c’erano gli italiani.
All’indomani dell’unità, con le mura di Porta Pia ancora sventrate, cominciò allora una vera e propria offensiva per la costruzione dell’identità italiana. Fu una battaglia che si combatté soprattutto sul terreno dell’istruzione, che fu conquistato al secolare monopolio della Chiesa e consacrato al culto laico della Patria. La campagna promossa dai piemontesi per l’identità italiana aveva infatti un unico grande ostacolo sulla sua strada: la tradizione cattolica incarnata nella figura del romano Pontefice. Dalla dissoluzione dell’Impero romano, infatti, nel succedersi disordinato di più o meno lunghe dominazioni allogene della penisola italiana, quel che aveva costituito insieme un fattore di continuità politica e di riconoscimento identitario erano stati lo Stato pontificio e la religione cattolica. Alla vigilia della presa di Roma, il Papa era ancora il sovrano di uno Stato millenario e il riferimento per i cattolici di tutto il mondo; era, in pratica, quasi un secondo re per tutti i sudditi cattolici d’Europa in tempi in cui spesso religione e identità nazionale non erano poi due ambiti dai confini così ben definiti.
Nelle nuove scuole pubbliche del Regno si educava all’Italia, ed era un impegno immane. Nei programmi scolastici alla religione si sostituiva progressivamente l’educazione civica, in un contesto nel quale la piaga dell’analfabetismo era dura da debellare e gli squilibri sociali, economici e culturali tra le diverse aree della penisola erano di difficilissima composizione. Gli anni della scuola dell’obbligo passarono da due nel 1860 a tre nel 1877, per arrivare a quattro nel 1904. Nel 1911, infine, la scuola elementare fu resa in tutto e per tutto un servizio dello Stato, che prese a stipendiare direttamente i maestri sgravando così i Comuni da un peso economico non indifferente che rischiava di inficiare gli sforzi per una istruzione davvero pubblica. Ma proprio quando il sistema scolastico del Regno sembrava potesse finalmente iniziare a trovare efficace applicazione, la Grande Guerra sconvolse i piani, interrompendo per sempre la costruzione dell’identità nazionale di ispirazione risorgimentale. Le trincee del Piave e del Tagliamento, l’altopiano di Asiago e le creste dell’Adamello non furono infatti il luogo dell’identità nazionale, con buona pace della retorica interventista post-garibaldina. Trascorsi i primi mesi di ubriacatura arditesca, quella che nacque al fronte fu null’altro che una salda e disperata fratellanza tra commilitoni mandati al macello, senza alcuna valenza politica davvero diffusa. L’Ottocento, il secolo delle nazionalità per tutta Europa, si chiuse così senza il consolidamento di una nazionalità italiana.
Finita la guerra, fu il fascismo a provare a dare un nuovo impulso alla costruzione di una identità per l’Italia. Ma era una operazione fuori tempo massimo. Il tentativo di edificazione della nazione fascista era destinato a scivolare sulle non finite fondamenta della nazione liberale e, perso il treno del secolo delle nazionalità, la costruzione dell’identità nazionale fascista si vide ben presto interrotta con l’avventura della seconda guerra mondiale, che ne mise in evidenza il carattere effimero ed episodico. Con il progressivo smarcamento dal regime del grande capitale e la sempre più forte resistenza socialista e comunista, il centro della questione identitaria si andava spostando dalla costruzione della nazione al conflitto di classe.
Gli anni della Costituente e del referendum sulla Repubblica furono in quest’ottica solo una felice e nobile parentesi. Il cupo contesto internazionale e le disparità del miracolo economico dovevano di lì a poco spaccare il fronte comune repubblicano e impedire così ancora una volta sul nascere, e forse per sempre, il processo di costruzione di una identità condivisa per l’Italia.
(di Eugenio D’Agata)