Regno Unito, nuovo boicottaggio contro Israele
Far pressione su Israele affinché rispetti i diritti umani e il diritto internazionale. Artisti e consumatori sono in prima fila per combattere quella che viene definita come una nuova “apartheid”, una forma di segregazione e oppressione verso i palestinesi. I volantini per sensibilizzare i londinesi alla lotta contro l’occupazione dei territori palestinesi e l’adesione di oltre un centinaio di esponenti del mondo della cultura, che si aggiungono ai seicento sostenitori della causa nei mesi scorsi, sono la testimonianza del nuovo fermento culturale, sociale e politico che si respira nel Regno Unito.
Contro il «Made in Israel» – Il supporto al popolo palestinese passa dal boicottaggio dei prodotti israeliani, come riportano i volantini che circolano a Londra in questi giorni, caratterizzati dagli slogan “Support the Palestinians” e “Boycott Israeli goods”. Dai promotori un invito all’azione della società civile contro l’inerzia dei governi mondiali e le risoluzioni dell’ONU che in 60 anni non hanno portato ad alcun progresso per la situazione dei rifugiati palestinesi e coloro che abitano nei territori occupati. In chiaro parallelismo con l’apartheid in Sudafrica, il boicottaggio si è rivelato un’arma pacifica vincente e viene indicata come modello di riferimento. Ai consumatori britannici si chiede di non acquistare prodotti con etichette provenienti da Israele o dalla “West Bank” – ovvero “la sponda occidentale”, la denominazione della Cisgiordania per gli inglesi – privilegiando, invece, i prodotti palestinesi.
Le ragioni del boicottaggio, forma di consumo critico scelto per la protesta, affondano le radici nella complessa vicenda israelo-palestinese, dalla nascita dello Stato di Israele in Palestina alla costituzione della lotta armata palestinese, fino alla recente risoluzione del Parlamento europeo sul riconoscimento in linea di principio dello Stato palestinese. Il conflitto sul piano politico è indissolubilmente legato alla violazione dei diritti umani, come riporta il sito www.palestinecampaign.org, punto di riferimento degli attivisti. In sintesi, le motivazioni elencate dai promotori sono: l’occupazione di Israele fin dal 1967 di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est; i profitti derivanti dall’esportazione di frutta e verdura nel Regno Unito maturati nei Territori occupati palestinesi; l’uso della forza militare israeliana che ha portato all’uccisione di 1500 persone, tra cui centinaia di bambini all’inizio del 2009; la demolizione di 20.000 case di palestinesi dal 1967 ad oggi; i ripetuti posti di blocco, gli arresti e le espropriazioni per la costruzione del muro che separa Israele dalla Cisgiordania, dichiarato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia. Particolare risalto è dato al maltrattamento dei bambini palestinesi, arrestati nel cuore della notte, bendati e portati in isolamento, spesso accusati di aver lanciato pietre, come ha pure denunciato il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite nel 2013 e il “Children in Military Custody”, rapporto diffuso da una delegazione di avvocati del Regno Unito nel 2012.
Tra gli ebrei britannici trova ampio consenso la campagna BIG (Boycott Israeli Goods), avviata a partire dal 2007, a sostegno del movimento BDS (Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni), che dal 2005 promuove a livello internazionale, nazionale e locale iniziative a favore dei palestinesi. Gli stessi ebrei sono al centro di un sondaggio che ha fatto molto discutere. Infatti, stando ad una rilevazione condotta a gennaio da YouGov per la Campaign Against Antisemitism, il 45% dei cittadini inglesi nutrirebbe sentimenti antisemiti nei confronti della popolazione ebraica del Regno Unito. La campagna per il boicottaggio contro Israele è stata lanciata anche sulla piattaforma italiana nel luglio del 2014 con l’invito a sottoscrivere la lettera per un embargo militare a Israele. A promuovere un boicottaggio anti Israele alcuni giorni è anche l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), come riporta l’agenzia di Stampa del Vicino Oriente Nena News, che ha dato ai negozianti palestinesi due settimane di tempo per rimuovere dagli scaffali i prodotti di sei industrie alimentari israeliane: Strauss Group (bevande), Tnuva (prodotti caseari), Osem (pasta, salse e zuppe), Elite (cioccolata e caramelle), Prigat (bevande) e Jafora-Tabori (bevande).
Il «boicottaggio culturale» – La protesta ha assunto una valenza fortemente simbolica grazie alla campagna Artists’ Pledge for Palestin. Con una lettera aperta pubblicata il 13 febbraio dal quotidiano The Guardian oltre 100 artisti del Regno Unito hanno annunciato il boicottaggio culturale di Israele. I loro nomi si aggiungono agli altri sostenitori, musicisti, cantanti, scrittori, registi, architetti e altri lavoratori nel campo della cultura, che hanno firmato la loro adesione sul sito artistsforpalestine.org.uk. Consapevoli che “la catastrofe palestinese va avanti” e che “le guerre si combattono anche sul fronte culturale”, gli artisti si impegnano a rinunciare a inviti e finanziamenti per suonare, ricevere premi e partecipare a manifestazioni culturali, ispirandosi ai musicisti che si rifiutarono di tenere concerti durante l’apartheid sudafricano, “fino a quando Israele non rispetterà il diritto internazionale e terminerà l’oppressione coloniale dei palestinesi”.
Mike Leigh, Kate Tempest, Gillian Slovo, Brian Eno, Richard Ashcroft, Alexei Sayle e Kamila Shamsie sono alcuni dei firmatari più conosciuti. La scrittrice pakistana, Kamila Shamsie, in un articolo apparso ancora una volta sul Guardian, ha spiegato le ragioni della sua adesione. La forte spinta al boicottaggio viene proprio dalla società civile palestinese e niente di paragonabile è stato fatto altrove, dove pure esistono altre forme di apartheid, afferma la scrittrice, come quella delle donne in Arabia Saudita, del Belucistan in Pakistan o l’occupazione militare indiana del Kashmir. Una protesta civile nonviolenta, come quella del boicottaggio “commerciale” e “culturale”, di fronte a strumenti politici e diplomatici rivelatisi ancora incapaci di trovare una soluzione al conflitto, potrebbe fare la differenza per portare di nuovo all’attenzione dell’opinione pubblica e dell’agenda politica internazionale la difficile situazione dei territori israelo-palestinesi.
(di Elena Angiargiu)