Quanto costano i fuori corso agli Atenei?
La questione dell’elevato numero di studenti fuori corso presenti negli Atenei italiani ha sempre destato polemiche e discussioni. Ora, però, rischia di diventare un problema economico serio per le Università statali.
L’urgenza di affrontare l’argomento è stata generata dalla pubblicazione del Decreto interministeriale sul calcolo del Costo standard unitario di formazione per studente in corso, ovvero del nuovo metodo di ripartizione dei finanziamenti alle Università statali. Con questa metodologia, la percentuale del 20% del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) è destinata agli Atenei italiani in relazione al numero dei soli studenti in corso.
L’intento primario del nuovo metodo è di eliminare la cosiddetta spesa storica, che consiste nella definizione della quantità dei fondi da assegnare in relazione alla spesa sostenuta storicamente da un Ateneo per erogare servizi. Chi ha speso di più, con questa logica, riceveva un maggior numero di fondi e , senza dubbio, c’era una bontà di fondo in questo concetto, se non fosse che di fronte a una certa quota di denaro in uscita non sempre corrispondevano i servizi che tale spesa avrebbe dovuto generare. Il meccanismo, dunque, ha rivelato le sue crepe e per rendere il sistema di distribuzione dei fondi più equo e incentrato sulla meritocrazia, già la riforma Gelmini aveva proposto il metodo dei costi standard per valutare oggettivamente il costo e la presenza di un particolare servizio.
Poiché nessuna manovra genera esclusivamente effetti positivi, la manovra adottata nel corso dell’ultimo anno, ha scoperto dei nodi irrisolti all’interno del panorama universitario, che gravano sull’immagine e sulle spese degli Atenei tanto quanto il fenomeno dello sperpero del fondi erogati sul vecchio meccanismo della spesa storica. In particolare, è venuta a galla la questione mai risolta degli studenti fuori corso, i quali rappresenterebbero un problema non da poco nella corsa all’attribuzione dei finanziamenti.
La condizione per ottenere il 20% del Fondo di Finanziamento Ordinario è l’esclusione dei fuoricorso dal totale di studenti per cui l’Università potrà ricevere la sua quota: infatti, come sopra specificato, il parametro ‘Costo standard per studente in corso’ si riferisce solo agli universitari definiti come studenti regolarmente iscritti nell’Ateneo da un numero di anni complessivi non superiore alla durata normale del corso frequentato .
Conseguenza principale: gli Atenei con un alto numero di studenti fuori corso rischiano di veder impoverite le proprie finanze. A questo principale effetto se ne potrebbero agganciare altri, scatenando un meccanismo degenerativo pericoloso. I timori maggiori riguardano il possibile aumento delle tasse per i fuoricorso, nonché l’eventuale abbassamento di difficoltà delle prove d’esame, per rendere più agevole il proseguimento degli studi e il conseguimento del titolo nei tempi previsti.
Gli Atenei maggiormente colpiti da questa manovra sono quelli del centro sud ( Potenza, L’Aquila, Cagliari e Catania sono ai primi posti, secondo la classifica stilata da IlSole24ore) e se sono presenti quote di fuori corso superiori al 40% in molte piccole Università, sopra la media non mancano alcuni grandi Atenei storici, come La Sapienza di Roma, l’Università di Pisa e la Federico II di Napoli. La perdita in termini materiali è molto elevata: escludendo dai parametri per l’ FFO gli studenti fuoricorso, La Sapienza ha perso una decina di milioni di euro di fondi , per citare solo un esempio.
Continuando di questo passo gli studenti fuoricorso saranno un “peso morto” per le Università e le iscrizioni risentiranno notevolmente di questa situazione. Perché molti degli iscritti universitari sono ragazzi lavoratori che, pur di ampliare il proprio bagaglio culturale, scelgono di portare avanti contemporaneamente gli impegni occupazionali e quelli di studio a scapito, ovviamente, del rispetto dei tempi usuali di conseguimento del titolo. Molti sono anche gli studenti che hanno ritardato il proprio percorso didattico per dedicarsi all’esperienza formativa dell’Erasmus, un progetto continuamente pubblicizzato e incentivato da quelle stesse istituzioni che ora attaccano i “ritardatari”, non considerando che, scegliendo di compiere esperienze di tal genere, si finisce necessariamente nel girone dei fuoricorso.
Altri sono i casi che si possono citare per evidenziare il concetto che studente fuori corso non significa necessariamente studente svogliato, poco meritevole e poco diligente. Poiché non stiamo parlando di scuola dell’obbligo, molti universitari continuano i propri studi accettando anche alcuni compromessi. Relegare il destino finanziario delle Università statali a un mero calcolo discriminativo, significa correre il rischio di ghettizzare alcuni Atenei, per il semplice fatto di presentare una maggiore percentuale di iscritti e dunque una cifra elevata di studenti fuori corso.
Che l’Università statale presenti criticità difficili da risolvere con singole manovre, questo è risaputo. Che interventi mirati, determinati e specifici siano necessari, anche questo è fuori discussione. Tuttavia, occorre ponderare gli effetti pratici che ogni misura può comportare in termini di qualità dei servizi, delle strutture, dell’offerta formativa. Soprattutto, è bene valutare le conseguenze di una legge che rinuncia a indagare a fondo le ragioni dell’alta quota di studenti fuori corso, utilizzandola, invece, come elemento discriminativo per l’erogazione di una percentuale di finanziamenti.
(di Giulia Cara)