Playoffs NBA. Dopo 40 anni i Warriors di nuovo sul tetto del mondo
Anche la NBA volge al termine. Vittoria dei Golden State Warriors, in finale contro i Cleveland Cavaliers. I californiani hanno avuto la meglio degli avversari in 6 gare. Schiacciante la superiorità dei Warriors che hanno fatto registrare molti nuovi record.
Ma partiamo dal principio, Golden State è una squadra che si è costruita negli anni, non un instant team come poteva essere Cleveland. I GM californiani in queste ultime stagioni hanno preso anche scelte difficili per arrivare all’obiettivo, come lo scambio di Monta Ellis, giocatore di talento, ma che forse limitante per la crescita di quello che oggi è il miglior giocatore della lega Stephen Curry. La prima scelta coraggiosa in estate fu quella di affidare la panchina ad un esordiente, seppur vincente da giocatore (cinque titoli, quattro con i Bulls di Jordan ed uno con gli Spurs di Duncan), ma pur sempre esordiente, Steve Kerr. Ed ecco il primo record che si infrange. Era dal 1982 che un esordiente in panchina non vinceva un anello, in precedenza Pat Riley, che poi ne vincerà altri quattro, oggi è hall of famer e presidente dei Miami Heat. Il precedente è incoraggiante, se son rose fioriranno.
Oltre all’allenatore va tributata la giusta importanza al già citato Steph Curry, premiato MVP della stagione nella lega più competitiva del mondo. Ha guidato i Warriors al primo posto nella Conference più impegnativa (la Western), ai playoffs è stato una macchina quasi perfetta, salvo incepparsi nelle prime due gare e tre quarti di finale, come se avesse subito troppo la pressione. Ma proprio il quarto quarto di gara tre è stata la svolta che ha fatto girare la serie. A fine terzo quarto, con Golden State sotto di diciassette punti e la partita virtualmente persa, si scrolla dalle spalle la tensione, giocando con nulla da perdere: segna 14 punti nel solo quarto quarto (13 ne aveva fatti registrare nei primi tre), non impedisce la sconfitta, ma torna ad essere il solito Steph dei tiri impossibili, quello che viene premiato MVP, quello a cui sua maestà LeBron James tributa i complimenti al termine di gara 6.
Ecco quindi il secondo record frantumato, nessuno mai in tutta la storia della NBA era riuscito ad eliminare ai playoffs tutti i suoi colleghi inseriti nel miglior quintetto stagionale dalla NBA: Anthony Davis al primo turno, Marc Gasol al secondo, James Harden in finale di conference e proprio LeBron James nella finalissima per il titolo. Ma una squadra non può essere composta da un solo, seppur bravissimo giocatore, e allora l’altra componente fondamentale per tutta la stagione è stata sicuramente quella del supporting cast. Come non dar il giusto plauso a Klay Thompson, che insieme a Stephen Curry ha formato per tutta la stagione la coppia degli Splash Brothers, tenendo ritmi che hanno portato alla chiamata per l’All Star Game. Draymond Green, in lizza per il premio di giocatore più migliorato della NBA, ha iniziato male la serie finale, ma ha concluso l’ultima partita in tripla doppia (16-10-11). Recuperato dal mazzo di carte come jolly da Kerr, quando era evidente che Bogut era inconsistente sotto canestro in fase offensiva ed in fase difensiva non riusciva a limitare Thompson e soprattutto Mozgov. Altra menzione speciale per André Igoudala, un giocatore sicuramente troppo sottovalutato per il gioco espresso in tutta la sua carriera, prima scudiero di Iverson a Philadelphia, poi uomo franchigia in Pennsylvania dopo l’addio di AI, ex All Star. Ad inizio anno Kerr gli ha preannunciato un anno da sesto uomo, lui ha accettato il progetto provando sempre a mangiare minuti ai compagni nelle gerarchie ed ecco il terzo record al termine di gara 6 c’è stata la consueta votazione per l’MVP delle Finals, 0 voti per Curry, 4 per LeBron James 7 per André Igoudala, mai nessuno partendo per tutta la regular season dalla panchina era stato premiato con il Bill Russell Trophy.
Tutta la rosa comunque ha dimostrato completezza ed ha avuto la fortuna di non subire gravi infortuni nel corso della stagione. Gli altri campioni sono Harrison Barnes pedina fondamentale del quintetto base per tutta la stagione, Andrew Bogut il centro titolare anche se accantonato da Kerr dopo gara 3 delle finali, tanto da non prendere parte neanche per un minuto all’ultima e decisiva gara 6. I veterani Shaun Livingston, Leandro Barbosa, David Lee, Marreese Speights, abili nei minuti in cui sono stati chiamati in causa a dar riposo ai titolari e permettere a Golden State di giocarsela fino in fondo. Festus Ezeli, un ragazzone di 2.11, decisivo per atletismo, arrivato in America senza neanche sapere le regole del gioco ed oggi, a tre anni dal draft in cui è stato selezionato dai Warriors, campione, E ancora, i panchinari mai utilizzati che fungevano da completamento della rosa, come Brandon Rush , Justin Holiday, Ognjen Kuzmić e James Michael McAdoo, cognome importante per quest’ultimo, lontano parente dell’Hall of Famer Bob McAdoo campione NBA con i Lakers negli anni ’80. Altro record è legato proprio a Ognjen Kuzmić e James Michael McAdoo, entrambi mandati a farsi le ossa nella lega di sviluppo NBA con i Santa Cruz Warriors, squadra affiliata ai Golden State Warriors ed entrambi in pochi mesi campioni sia della D-League che della NBA.
Infine non si può non dedicare un pensiero a LeBron James, il grande il sconfitto. Una delle sigle che lo accompagna è “We are all witness” (siamo tutti testimoni), i maligni potrebbero obiettare siamo testimoni delle sue sconfitte, ma la verità è che nonostante possa non essere l’atleta più vincente della NBA, in questa serie finale ha dovuto prendersi sulle spalle non solo tutta una squadra, ma tutto uno Stato. Probabilmente già come qualità di gioco Cleveland era inferiore ai Warriors, poi senza tre giocatori del quintetto titolare (Varejao, Love ed Irving), fuori per infortunio la pressione sulle spalle del campione è stata fortissima, perché tutto lo Stato dell’Ohio si affidava al ragazzone di Akron, tanto che è stato visto lasciare in lacrime la Quicken Loans Arena. Il colpo mentalmente è stato sicuramente duro, ma per la prima volta nella storia, dopo West, MVP delle finali sarebbe potuto essere un giocatore perdente, anche questo a suo modo potrebbe essere considerato un record. Per un giocatore che nelle 6 gare di finali ha mantenuto una media di circa 40 punti a partita, ma che non è riuscito dove forse, Michael Jordan a parte, non sarebbe riuscito nessuno. Così dopo 40 anni nella baia di San Francisco si può esultare nuovamente per un titolo vinto, il quarto nella storia dei Warriors, il più atteso a giudicare dal fatto che la Oracle Arena ad Oakland fossa piena, nonostante la finale si stesse giocando in Ohio. 17 Giugno 2015 la festa può iniziare.
di Francesco De Felice