Finanza. La crisi cinese spaventa più della Grecia
La vicenda greca e il suo braccio di ferro con un’Europa aggressiva e sempre più lontana dalle realtà sociali degli Stati membri, sta facendo passare in secondo piano l’avvenuto scoppio della bolla finanziaria cinese, che passa nei nostri telegiornali come un mero aggiornamento di borsa. I problemi interni italiani, i temi caldi che fino a qualche giorno fa infiammavano le polemiche, si sono disciolti al sole della vicenda greca, così mentre in Oriente il mercato cinese cola a picco e il ddl scuola affronta il suo ultimo atto alla Camera, Tsipras e la Merkel troneggiano su prime pagine e detengono lo scettro delle prime notizie. Ma del destino dell’economia di Pechino in pochi sembrano essere sorpresi, anche se si inizia a parlare di 1929 cinese.
La borsa cinese era cresciuta di oltre il 150% nell’ultimo anno, una folle corsa iniziata nel giugno 2014, fino al crollo dello scorso mese di giugno, da quando ha perso quasi il 35%. A nulla sono valse le misure adottate dalle autorità e la sospensione del 71% dei titoli quotati. Un calo del più del 30% equivale a più di 3mila miliardi di dollari, ci sono interi mercati finanziari che equivalgono a quanto perso dalla Cina in questo singolo e unico mese.
Ma il picco minimo è stato raggiunto in questa seconda caldissima settimana di luglio, e circa la metà delle società quotate a Shanghai, che raggiungono quasi le millecinquecento unità, sono state sospese per eccessivo ribasso.
Il crollo che sta investendo le Borse di Shanghai e Shenzhen sembra irrefrenabile, ad essere colpiti sono soprattutto i piccoli investitori e i nuovi del mercato. Precedentemente più di 1.400 imprese, quindi oltre la metà di quelle quotate a Shanghai e Shenzhen, hanno chiesto il blocco della vendita delle loro azioni nel tentativo subire perdite contenute.
Traino dello sviluppo della borsa di Shangai è stato il ChiNext, una sorta di NASDAQ cinese, l’indice che raggruppa le maggiori società tecnologiche della Cina. Secondo molti analisti il fenomeno finanziario al quale si sta assistendo in Estremo Oriente ha caratteristiche simili alla bolla dei titoli “dotcom” del 1999, ovvero “la bolla della new economy”, una crisi finanziaria generata dall’euforia spropositata per le nuove aziende digitali americane.
Quello che ne è seguito può essere verosimilmente riassunto con la teoria del “panico delle borse”, in cui gli investitori iniziano a pensare che i prezzi hanno raggiunto dei valori troppo alti e iniziano perciò a vendere, questo cospicuo numero di persone che vendono fa insospettire anche gli investitori sicuri che iniziano a vendere allo stesso modo.
Dal canto suo la Banca Centrale cinese si è repentinamente impegnata in termini di garanzia della stabilità, nel fornire «ampia liquidità» al mercato, ad autorizzare investimenti in azioni per i fondi pensione, ad effettuare pressioni psicologiche per contrastare vendite allo scoperto, ad emanare sospensione delle nuove quotazioni in Borsa.
Si parla di 21 grandi brokers cinesi che hanno perfino offerto quasi 20 miliardi di dollari per sostenere i prezzi delle azioni, così come fecero i loro colleghi americani alla fine degli anni ’20.