Ostia, la “Villa di Plinio” in abbandono. Ciocca: “Da politica parole ma non fatti”
La meravigliosa Villa della Palombara, che si trova nella Pineta di Castel Fusano nei pressi di Ostia, chiamata così per la presenza di un grande leccio utilizzato nel XIX secolo per la caccia ai piccioni selvatici, i cosiddetti palombi, vien nell’immaginario collettivo, riconosciuta e chiamata “Villa di Plinio”, in quanto corrisponderebbe alla stessa posseduta e descritta da Plinio il Giovane nel II sec. d.c.. In realtà, però, le ultime campagne di scavo (iniziate nel 1989 e concluse nel 2008) hanno dimostrato l’incongruenza di alcune parti della villa descritta da Plinio con quelle ritrovate e più probabilmente, la grande residenza romana di tipo marittimo, sembrerebbe essere appartenuta ad Ortensio Ortalo, famoso oratore rivale di Cicerone al tramonto della Roma repubblicana.
La pittoresca ”Villa di Plinio”, scoperta nel 1713 dal marchese Marcello Sacchetti, la cui famiglia era proprietaria della tenuta di Fusano dal 1620, e rinvenuta completamente dagli scavi del ventennio fascista nel 1935, occupa oggi una zona di 1000 ettari ed è immersa in una pineta, sofrutto delle piantumazioni di pini iniziate nei primi decenni del 700’ dal marchese Sacchetti il quale, con una piccola piantagione di pini domestici, non intendeva ricavare nient’altro che una semplice riserva di pinoli pregiati, e continuate dalla famiglia Chigi prima e dal comune di Roma dopo, fino ad arrivare all’aspetto attuale, zona dall’altissimo e incredibile interesse naturalistico e faunistico.
L’antica residenza era a nuclei distinti con ingresso principale, terme, peristilio di età giulio-claudia con arco in laterizio (oggi ricostruito), e cinta muraria interrotta verso il mare. Dalle molte analisi operate durante gli scavi, in special modo gli ultimi del 2008, diretti dalla dott.ssa Carmelina Camardo, sono emerse diverse fasi di costruzione del complesso. Costruzioni che possono essere articolate in tre macro-periodi: età Giulio-Claudia, fine I e inizio II sec. d.c., e dal 117 al 161 d.c. ( periodo che comprende i regni degli imperatori Adriano e Antonino Pio ). Vi è anche da segnalare una romantica basilichetta paleo-cristiana anonima limitrofa all’area archeologica.
Da tutto ciò emerge dunque che la splendida villa possiede un grande interesse a livello storico, di architettura edilizia e anche artistico. Da notare è l’incantevole presenza del mosaico termale, recentemente restaurato, raffigurante Nettuno e vari animali marini, classici temi che accompagnavano le pavimentazioni mosaicate delle terme in epoca romana. Vi è poi un altro delizioso mosaico rinvenuto sempre nella villa, il quale, dopo essere stato asportato e restaurato da ZETEMA, azienda strumentale a totale partecipazione comunale, che opera come supporto alla sovraintendenza capitolina, a causa dei pesanti danni che riportava è stato sistemato in un magazzino della sovraintendenza.
Ma in che condizioni versa al giorno d’oggi la cosiddetta “Villa di Plinio”? Per rispondere a questa domanda ci siamo rivolti alla responsabile dell’area archeologica della villa, la dott.ssa Silvana Ciocca, la quale, oltre a confermare le nostre impressioni, ha aggiunto anche qualche particolare molto interessante: “La villa, oltre a trovarsi in una posizione tutt’altro che facile da individuare, tantomeno da raggiungere, visto che è all’interno della pineta assolutamente priva di indicazioni, versa in uno stato di conservazione precario con crolli di diversa entità. Vegetazione infestante e musealizzazione totalmente assente, fatta eccezione per l’adeguato sistema informativo dei cartelli in situ. L’area infatti risulta chiusa ed in stato di abbandono a prima vista, anche se è visitabile su prenotazione presso i custodi di ZETEMA, i quali scortano e assistono durante la visita (nonostante sul sito della sovraintendenza capitolina sia ribadita la sua chiusura categorica a causa dei lavori, ndr)”.
Un altro sciagurato problema è quello del vandalismo (solo qualche anno fa all’interno dell’area archeologica ebbe luogo una gara di motocross.) ”Il sito – ha aggiunto la Ciocca – viene spesso e volentieri penetrato, a causa della sua desolazione, attraverso l’apertura di fori nella rete metallica, il cui rifacimento è stato più volte approvato dal consiglio del X municipio (ultima approvazione Agosto 2014) la quale circuisce, in maniera non continua, il perimetro del sito. Per tentare di arginare il problema nel 2008 sono stati asportati, dal Servizio Giardini comunale, diversi cancelli dall’area archeologica del Circo di Massenzio (Appia antica), dei quali però solo uno è stato inserito nella recinzione, in quanto per finire in modo appropriato i lavori, come previsto dal progetto del 2008, si sarebbe dovuto realizzare un muretto di cemento nel perimetro presso i cancelli e lasciare la recinzione metallica nei soli punti dove già si trovano ostacoli naturali”.
Ovviamente tutto ciò non è accaduto (gli scavi del 2008 non riuscirono nemmeno a definire i limiti dell’area archeologica ), dal momento che, continua la dott.ssa “nei molti sopralluoghi che fecero, i politici dell’ormai ex XIII municipio (ora X, ndr) alle parole fecero seguire tutto fuorché i fatti. Sia da un punto di vista pecuniario, destinando la quasi totalità dei fondi disponibili (500.000 euro dall’assessorato alle politiche culturali del comune di Roma nel 2007) al centro storico, trascurando il suburbio; sia per una ragione di poca sicurezza per un eventuale personale di custodia, a causa di animali selvatici e malavita (che purtroppo trova nella pineta un ambiente perfetto per le sue attività, ndr)”. Un espediente, questo, imbevuto di un’amara vena di patetismo buonista, tipica della maggioranza dei mestieranti in politica, dal momento che la dott.ssa Ciocca e il suo staff corrono questi rischi quotidianamente per i sopralluoghi in situ.
Infine, chiedendo sempre alla responsabile del sito, per quale motivo, onde evitare i ripetuti atti vandalici e monitorare in modo più accurato i resti archeologici, non si approntasse subito il sistema di video controllo BBCC, dipendente dalla centrale di monitoraggio in Palazzo Braschi (Roma), a sua volta dipendente dalla Sovraintendenza Capitolina, ci è stato spiegato: “Mettere telecamere, controllate dal sistema della Centrale di Monitoraggio del Comune di Roma, come per altri monumenti, mi è stato detto che è complicato, essendo una grande area con animali selvatici, che farebbero scattare spesso l’allarme”. Pur essendo un espediente che avrebbe veramente potuto compiere miracoli nella situazione in cui versa l’area al momento attuale, il responso è quindi sempre stato negativo, in quanto la fauna selvatica che soggiorna nella pineta di Castel Fusano potrebbe essere causa di eccessive chiamate d’allarme, cosa che, a quanto pare, recherebbero un eccessivo disturbo agli eventuali corpi di sicurezza.
Quindi, a “ragion politica”, è sicuramente più opportuno impuntarsi su questi problemi, assolutamente trascurabili, e rimanere in un atteggiamento di turpe status quo, invece che concentrarsi nel risollevare e valorizzare un sito culturale che soffre di penurie amministrative dalla sua scoperta e che continuerà a soffrirne per ancora molto tempo se non saranno gli stessi cittadini del X municipio a prendere in mano la situazione a livello di valorizzazione, fruibilità e comunicazione. Cosa che almeno in parte sta avvenendo da qualche anno tramite l’adozione del sito da parte di alcune scuole di Ostia, le quali organizzano diverse visite nell’area archeologica secondo un progetto partito da Napoli e proseguito poi a Roma. I cittadini dovrebbero agire in modo da dimostrare quel sentimento di appartenenza e di iniziativa verso la protezione, la condivisione e la conservazione del patrimonio culturale (ormai quasi completamente assente nella classe e nella mentalità politica) il quale non va assolutamente diviso in patrimonio di serie A e di serie B, e deve essere quindi salvaguardato nella maniera più poliedrica possibile. Il patrimonio artistico e archeologico non è solo “un insieme di cose belle, antiche e pregiate” ma è un testamento etno-antropologico senza il quale non avremmo identità, non avremmo radici.
Calpestando le testimonianze della storia è come se la classe politica, sempre troppo attenta all’immagine, quasi mai alla sostanza nelle piccole realtà quotidiane, calpestasse, oltre ad un bene inestimabile da cui potrebbero scaturire non indifferenti potenzialità economiche (essendo questo per essa l’unico parametro valido per iniziare un’opera di valorizzazione), anche se stessa. In quanto rappresentanza della nazione, che altro non è che un “noi” proiettato nel passato, presente e futuro e reso solido dalla stessa lingua, dalla stessa cultura e dalla stessa storia, la classe politica non può permettersi di trascurare nemmeno uno di questi pilastri, i quali rappresentano il patrimonio. Se ciò avvenisse lo stesso concetto di rappresentanza verrebbe meno, alla luce delle significative inottemperanze nel difendere e preservare ciò che effettivamente la suddetta classe dirigente rappresenta… la nazione.
(di Andrea Checchi)