Smart working: tra poco è legge anche in Italia
Arriva con la legge di Stabilità e, se segnerà davvero il modo di concepire il lavoro in Italia, si scoprirà solo col tempo. È lo smart working o lavoro “agile”, o ancora lavoro “intelligente”. Che vuol dire? Flessibilità e autonomia nella scelta di spazi, orari di lavoro e strumenti da utilizzare. Un approccio svincolato dal semplice telelavoro, fortemente orientato ai risultati, lo smart working diventerà legge, innovando l’organizzazione del lavoro e garantendo stesse regole e diritti per chi svolge le sue mansioni in sede o fuori dall’ufficio, anche in Italia.
Già sperimentato da alcune aziende, infatti, il lavoro agile sarà regolato da 9 articoli contenuti nel disegno di legge collegato alla legge di Stabilità 2016. Lasciando spazio alla contrattazione collettiva e individuale, questa decisione potrebbe favorire il decollo del “lavoro intelligente”, intervenendo su tutta una serie di materie (diritti, privacy, infortuni e retribuzione) e portando numerosi vantaggi a lavoratori, aziende e al sistema economico nel suo complesso. Una manovra che vale oltre 27 miliardi di prestazioni, secondo l’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano, con meno di 10 miliardi di costi e che, tenendo conto delle esperienze internazionali che hanno adottato forme di lavoro flessibile per i dipendenti, porterebbe aumenti della produttività fino al 35-40% nelle grandi aziende e abbatterebbe del 63% l’assenteismo, conservando le pause e mantenendo la paga invariata.
Il governo si dimostra pronto a regolare, ma soprattutto incentivare, lo smart working che, considerata la carenza di servizi dedicati nel Penisola, potrebbe significare anche un aiuto concreto per l’occupazione femminile, adeguando finalmente il mercato del lavoro italiano alle esigenze delle donne. Inoltre, a differenza del vecchio telelavoro, lo smart working punta a far crescere la produttività conciliandola con le motivazioni e la flessibilità del dipendente, impiegato o manager.
Cosa dice il ddl. Curato dal docente di diritto del lavoro dell’Università Bocconi, Maurizio Del Conte, la proposta di legge era stata presentata nel 2014 da tre parlamentari: Alessia Mosca (Pd), Irene Tinagli (Scelta civica e oggi Pd) e Barbara Saltamartini (prima Ncd ora ‘Noi con Salvini’), Largamente condivisa, insomma, la proposta del ddl che, sottoposta a consultazioni pubbliche e in un dialogo costruttivo con i sindacati è stata resa ancor più flessibile rinviando la regolamentazione operativa dello smart working ad un accordo scritto tra datore di lavoro e lavoratore. La scelta deve essere volontaria e una volta operata, nell’accordo tra le due parti saranno definite le modalità e l’utilizzo dei devices tecnologici e le fasce orarie di riposo.
Lo scopo del lavoro agile viene definito dall’articolo 1 del ddl («incrementare la produttività e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro»). I requisiti sono l’esecuzione della prestazione fuori dai luoghi aziendali anche solo in parte (un giorno a settimana), la possibilità di usare strumenti tecnologici per svolgere il lavoro in remoto e l’assenza di una postazione fissa anche fuori dai locali aziendali. Il lavoro agile potrà essere regolato da contratti a tempo determinato o indeterminato ma si potrà recedere solo per giusta causa o con un preavviso non inferiore ai 30 giorni.
Inoltre la legge precisa che il trattamento economico di uno smart worker «non deve essere inferiore a quello complessivamente applicato nei confronti degli altri lavoratori subordinati che svolgono la prestazione lavorativa esclusivamente all’interno dei locali aziendali, a parità di mansioni svolte». Per il lavoratore che sceglie questa modalità è prevista la copertura assicurativa dell’Inail e anche il riconoscimento degli incentivi per la contrattazione di secondo livello. Il trattamento economico e normativo non deve essere inferiore a quello degli altri addetti che operano in azienda. I controlli del datore di lavoro devono restare nell’ambito dell’accordo individuale o nel rispetto della legge sui controlli a distanza. Gli articoli 6 e 7 regolano la sicurezza e gli infortuni. Grazie a un accordo con l’Inal il ddl copre sia gli infortuni occorsi lavorando fuori azienda sia quelli avvenuti durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione al coworking (per esempio). Saranno riconosciuti anche gli incentivi fiscali e contributivi che la Stabilità prevede per la contrattazione di secondo livello.
Qualche dato. Come detto, il lavoro agile è un modello organizzativo che rende più flessibile e autonomo il lavoro, includendo tutte quelle prestazioni effettuate da lavoratori dipendenti (quindi, non partite Iva) fuori dei locali aziendali. Finora, a sperimentarlo in Italia sono state prevalentemente aziende di servizi, consentendo di svolgere le attività professionali da casa, nella maggior parte dei casi, o tramite hub o coworking esterni.
In particolare, secondo l’Osservatorio del Politecnico, se nel 2013 solo un’impresa su cinque prevedeva il telelavoro e solo il 2% lo proponeva come possibilità a tutti i dipendenti, negli ultimi due anni c’è stato un aumento consistente dell’uso della flessibilità. Nel 2014 l’8% delle grandi imprese utilizzava lo smart working, nel 2015 il 17%. In generale, le oltre 250 aziende sotto la lente dell’Osservatorio stanno cercando una maggiore flessibilità di tempi e spazi ma, finora, a rallentare il meccanismo è stata soprattutto una normativa rigida e restrittiva, rimasta al “tempo analogico” e incapace di sfruttare pienamente pc, tablet e smartphone per lo svolgimento di mansioni fuori dall’ufficio. La nuova legge, invece, prevede che il dipendente o la dipendente possano lavorare fuori dai locali aziendali «per un orario medio annuale inferiore al 50% dell’orario di lavoro normale, se non diversamente pattuito», senza l’obbligo di avere una postazione fissa. Bisognerà solo vedere se molte piccole aziende che stipulavano informalmente degli accordi saranno pronte a recepire gli obblighi di legge. L’entrata in vigore della nuova legge, infatti, dovrebbe portare vantaggi sia alle imprese sia ai lavoratori ma, le piccole e medie imprese (Pmi) finora si sono dimostrate le più restie ad adottare le nuove forme di flessibilità. Sempre secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano, se nel 2015, il 17% delle grandi aziende italiane ha avviato progetti di smart working, il 14% li sta valutando e un altro17% ha avviato forme di flessibilità per specifici ruoli, tra le Pmi solamente il 5% ha avviato progetti di smart working, il 9% ha forme di flessibilità informale, più della metà non solo non conosce lo smart working, ma non è nemmeno interessata a conoscerlo. Così, le nuove norme potrebbero diventare anche propulsori per un cambiamento di mentalità anche per il cuore economico dell’Italia: le Pmi.
di Annalisa Spinelli