A volte ritornano: Luciano Spalletti e i suoi fratelli

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spalletti bisPer Luciano Spalletti la seconda avventura giallorossa non è iniziata nel migliore dei modi: contro l’Hellas Verona, fanalino di coda del Campionato, i capitolini non sono andati oltre l’1-1 (vantaggio giallorosso di Nainggolan, pari del “solito” Pazzini su rigore), perdendo altri due punti sul gruppo di testa.

A Roma da meno di una settimana, Spalletti è sicuramente il meno colpevole per lo stop con il Verona, ma il compito cui è chiamato il tecnico di Certaldo è, per usare un eufemismo, piuttosto complicato; il nuovo (vecchio) allenatore dei capitolini è però solo l’ultimo di una lunga serie di cavalli di ritorno che, nel mondo del calcio, hanno avuto alterne fortune.

Rimanendo lungo la sponda giallorossa del Tevere, è praticamente cronaca il ritorno di Zdenek Zeman sulla panchina della Roma: dopo il breve (ma intensissimo) biennio vissuto a Trigoria sul finire degli anni novanta, il Zeman-bis prende forma nell’estate del 2012 conseguentemente all’esonero di Luis Enrique, con il tecnico boemo invocato a furor di popolo dopo aver clamorosamente dominato il campionato di Serie B 2011/12 alla guida del Pescara, trasformato in Zemanlandia dalle prodezze di tre giovani talenti all’epoca relativamente sconosciuti: Ciro Immobile, Lorenzo Insigne e Marco Verratti. Nonostante l’entusiasmo dilagante della Roma giallorossa, la seconda esperienza del tecnico boemo è a dir poco deludente: zemaniana a tutti gli effetti, la Roma di Zeman alterna momenti di calcio di spettacolare a prestazioni anonime, con una difesa colabrodo che difatto impedisce ogni sorta di sogno di gloria. Il 2 Febbraio 2013, dopo il 2-4 interno con il Cagliari Zeman viene esonerato, con la Roma ottava in classifica e un consenso (nello spogliatoio e nella piazza) ridotto ai minimi termini: la stagione per i capitolini non termina comunque in maniera positiva, con Andreazzoli che da subentrato non ravviva l’elettrocardiogramma dei giallorossi, sconfitti anche in finale di Coppa Italia nella storica stracittadina contro la Lazio.

Sempre a Roma, addirittura tre i ritorni del compianto “Barone” Niels Liedholm, capace nella sua seconda esperienza sulla panchina giallorossa negli anni ’80 (la decade dei leggendari duelli tra la Roma di Dino Viola e la Juventus degli Agnelli) di riportare lo scudetto a Trigoria a quasi 40 anni dalla allora prima ed unica affermazione dei giallorossi.

Nemmeno le “grandi del Nord” sono immuni ai ritorni di fiamma: è il caso di Marcello Lippi per la Juventus, Roberto Mancini sulla panchina dell’Inter e di don Fabio Capello e Arrigo Sacchi su quella del Milan.

Protagonista di due ottime stagioni con Atalanta e Napoli, Marcello Lippi viene chiamato ad allenare nell’estate del 1994 una Juventus in piena trasformazione sportiva e dirigenziale; è a lui che la neonata “Triade” affida le chiavi della rinascita juventina. Nonostante le difficoltà iniziali, l’esperienza bianconera di Lippi si rivela trionfale: all’esordio in una big il tecnico di Viareggio riporta il tricolore a Torino dopo quasi 10 anni di astinenza, conquistando complessivamente 3 Scudetti, 1 Coppa Italia, 2 Supercoppe Italiane, 1 Champions League, 1 Coppa Intercontinentale e 1 Supercoppa Europea nel lustro torinese, consacrandosi come uno dei migliori allenatori a livello mondiale. La prima esperienza juventina di Lippi termina però nel peggiore dei modi, con il tecnico viareggino dimissionario nel Febbraio del ‘99 dopo il 2-4 interno patito contro il Parma in una stagione di per sè maledetta. Lippi e la Juve si separano per due stagioni, nelle quali il neo-tecnico bianconero Ancelotti non va aldilà di due secondi posti, mentre negativa è anche l’esperienza di Lippi sulla panchina dell’Inter. Le strade dei bianconeri e del tecnico viareggino si incrociano quindi nuovamente nell’estate del 2001, con la Juventus rifondata in seguito alle partenze di Inzaghi e Zidane e agli arrivi di Buffon, Thuram e Nedved. Nel triennio che segue Lippi vince uno dei campionati più incredibili della storia recente della Serie A, in quel 5 maggio 2002 in cui a Udine la Juventus scuce virtualmente dal petto all’Inter uno scudetto praticamente già conquistato. Nel 2002/03 i bianconeri si confermano sul trono d’Italia, arrivando anche a giocarsi la finale di Champions League con il Milan nel derby tutto italiano che, purtroppo per i torinesi, premiò dal dischetto Maldini e co. Nel 2003/04 la Juve vive un anno di transizione, e come nel ’99 l’esperienza di Lippi sotto la Mole giunge al termine: stavolta senza dimissioni, ma con il rammarico per  una finale di Coppa Italia persa con la Lazio che avrebbe conferito un altro sapore all’addio ai torinesi di uno dei tecnici più amati dalla tifoseria juventina.

Tra i tanti allenatori di caratura mondiale sedutisi sulla panchina del Milan, Arrigo Sacchi e Fabio Capello sono probabilmente tra i più vincenti della storia del club rossonero e non solo. Agli antipodi con riferimento al tipo di calcio praticato, Sacchi e Capello hanno però numerosi elementi in comune: l’aver allenato il Milan nel periodo più fulgido dell’era Berlusconi, aver fatto incetta di trofei sul territorio nazionale ed europeo, aver allenato il Real Madrid e…un disastroso ritorno a Milan. Per “don Fabio”, così come prima ancora per Arrigo Sacchi, l’indelebile marchio impresso sul palmares di via Turati durante le rispettive prime apparizioni nella San Siro rossonera  ha infatti come contraltare un’esperienza disastroso ritorno, dovuto più che a demeriti propri alle difficoltà di una squadra da rifondare. Sia per Sacchi (1996/97) che per Capello (1998) il ritorno sul versante rossonero della Milano calcistica culmina addirittura con un esonero, quasi a rappresentare una piccola macchia sui leggendari CV rossoneri maturati da entrambi durante la prima esperienza milanista.

Passando all’altra sponda dei Navigli, è strettissima attualità quella relativa al secondo atto di Roberto Mancini sulla panchina interista; dominatore del Belpaese pallonaro nel periodo immediatamente successivo a Calciopoli, Mancini lascia la Milano nerazzurra nel 2008 dopo la bruciante eliminazione in Champions League patita contro il Liverpool. Sulla panchina interista Mourinho non fa rimpiangere il Mancio ai tifosi interisti portando la Beneamata sul tetto d’Europa nel 2010, ma il post-“Special One” è una vera e propria agonia per i tifosi interisti. Il Mancini 2.0 è ancora tutto da scrivere, ma grazie ad una campagna trasferimenti di assoluto spessore “il Mancio” è riuscito a costruire un Inter solida e  cinica quanto basta per iscriversi alla lotta scudetto a distanza di 5 anni dall’ultima affermazione nazionale.

Guardando anche ai suoi illustri predecessori, nonostante le difficoltà di una squadra involuta e  di una piazza tanto passionale quanto esigente, Spalletti può guardare al futuro con cauto ottimismo, se non altro per il valore assoluto di una rosa che, se puntellata in difesa, è di assoluto valore. Mission dello Spalletti-bis è quidi quello di portare la Roma in alto, ma più della Juventus, del Napoi, dell’Inter o della Fiorentina, l’avversario più grande per il tecnico di Certaldo rischiano di essere Roma e la Roma stesse.

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