Senza Schengen, è ancora Europa?
Il trattato di Schengen vacilla. Con l’ultimatum UE alla Grecia inizia il conto alla rovescia. Ma, se tornano i confini interni, che ne sarà del sogno comune europeo?
Il Trattato di Schengen è una delle conquiste più importanti dell’Unione Europea. Non solo per quello che la libera circolazione delle persone e delle merci ha ridato in termini economici ad un’area segnata da due guerre mondiali, ma anche e soprattutto per gli ideali di solidarietà e libertà che, dopo aver letteralmente abbattuto un muro costruito nel suo cuore, hanno ispirato e portato alla creazione di un’Europa unita, democratica e aperta.
Gli attentati di Parigi prima e le violenze di Colonia poi hanno fatto leva su tutte quelle paure che ultimamente sembrano spingere il ricordo della nostra storia verso l’oblio, colpendo l’anima di quell’identità libera retta proprio dal sistema Schengen. Ma cos’è questo trattato? Cosa prevede? Pensare di abolirlo è veramente la strada giusta per risolvere le criticità con cui si sta confrontando oggi l’Europa?
La convenzione, che prende il nome dalla cittadina lussemburghese in cui è stata firmata nel 1985, ovvero Schengen, prevede che i cittadini e le merci dei Paesi aderenti possano circolare liberamente senza il controllo dei documenti, sia alle frontiere stradali sia nei porti, aeroporti o nelle stazioni ferroviarie.
È entrata in vigore progressivamente, a partire dal 1993, e oggi conta 26 Stati membri tra cui l’Italia, che però non corrispondono esattamente agli Stati dell’Unione europea: Svizzera, Islanda e Norvegia, infatti, sono fuori dall’Ue ma hanno aderito, mentre Gran Bretagna, Irlanda, Croazia, Romania e Bulgaria, sono comunitari ma hanno scelto di non farne parte.
Il Trattato, modificato appositamente nel 2012, prevede però che ogni Stato possa sospendere questa libera circolazione anche per sei mesi, in casi eccezionali.
La cooperazione Schengen è stata inserita nel quadro legislativo dell’Unione europea attraverso il trattato di Amsterdam del 1997 che ha definito regole e procedure comuni in materia di visti, soggiorni brevi, richieste d’asilo e controlli alle frontiere prevedendo l’abolizione dei controlli sulle persone alle frontiere interne; un insieme di norme comuni da applicare alle persone che attraversano le frontiere esterne degli Stati membri UE; l’armonizzazione delle condizioni di ingresso e delle concessioni dei visti per i soggiorni brevi; il rafforzamento della cooperazione tra la polizia e della cooperazione giudiziaria mediante un sistema di estradizione più rapido e una migliore trasmissione dell’esecuzione delle sentenze penali; la creazione e lo sviluppo del sistema d’informazione Schengen (SIS).
Ma perché Schengen scricchiola? Dopo gli attentati di Parigi, la Francia ha riattivato i controlli che, dal 13 novembre, sono condotti a campione. A settembre scorso, dopo l’ondata di profughi proveniente dai Balcani, la Germania ha scelto di farvi temporaneamente ricorso e ad oggi anche i Paesi scandinavi iniziano a muoversi in tal senso.
A quanto pare, dopo le ripetute politiche fallimentari di Bruxelles, per risolvere la questione legata agli imponenti flussi migratori, tutti stanno rialzando le frontiere. Se, nei mesi scorsi, il Consiglio europeo aveva esultato per aver deciso su quote e equa distribuzione dei migranti (soprattutto siriani, eritrei e iracheni), finora i risultati sono stati deludenti e le coste europee sono ancora nel caos e scandinavi in primis, ma anche olandesi, inglesi e tedeschi palesano la sfiducia dei controlli operati dei Paesi mediterranei, compresa l’Italia.
Nelle ultime settimane, il Trattato di Schengen è stato preso di mira come se fosse il responsabile di tutti i problemi europei legati all’immigrazione ed ora, dopo che il rapporto sullo stato delle frontiere esterne in Grecia della Commissione Ue ha riscontrato “serie carenze” sembra che a breve possa giungere al capolinea.
Il citato rapporto infatti ha dato l’avvio al primo dei quattro passaggi del procedimento di preparazione verso un’eventuale attivazione dell’estensione dei controlli alle frontiere per uno o più Paesi, per un massimo di due anni, secondo quanto previsto dall’articolo 26 dello stesso trattato di Schengen.
Ad oggi, i paesi che hanno sospeso l’accordo individualmente e temporaneamente (secondo quanto possibile per trattato) per tentare di frenare il flusso dei migranti sono cinque: Germania, Austria, Francia (parziale), Svezia e Danimarca (tra le rispettive frontiere).
Contestualmente alla redazione del rapporto sulle frontiere esterne, però, la Commissione europea ha anche fatto sapere che la situazione non è sufficientemente seria per garantire deroghe rispetto ai sei mesi di sospensione attualmente concessi ai singoli membri, ma che sta vagliando l’ipotesi di esercitare l’articolo 26 del Trattato e sospendere l’applicazione di Schengen per tutti i paesi. La Commissione ha motivato tale possibilità con il fatto che quasi due terzi dei migranti arrivati in Europa a dicembre 2015 non avrebbero molto probabilmente potuto beneficiare dell’asilo politico perché non provenivano da zone di guerra ed inoltre ha proposto un piano di azioni con raccomandazioni per risolvere “le serie e persistenti carenze riscontrate” in Grecia, con un ultimatum di tre mesi per Atene per apporre le correzioni richieste e scongiurare l’attivazione dell’articolo 26.
Un conto alla rovescia per la fine di Schengen? Nonostante sia difficile produrre stime esatte delle conseguenze politiche ed economiche della chiusura delle frontiere, i leader europei ne stanno discutendo da mesi ormai e la possibilità di modificare i trattati in modo da dare più libertà agli stati nel ripristinare controlli alle loro frontiere sembra prendere piede.
Se da un lato a spingere sul fronte abolizione sono i paesi dell’est Europa ed i leader di partiti nazionalisti o xenofobi; dall’altro, seppur tecnicamente possibile, le procedure non semplici ed il forte parere contrario di alcuni stati membri, come l’Italia, lascia la partita ancora aperta.
La sospensione del diritto di libera circolazione rischia di compromettere l’intera costruzione europea, sarebbe il simbolo dell’incapacità degli stati europei di trovare dei compromessi accettabili per tutti e di agire insieme in uno spirito di collaborazione e solidarietà nell’affrontare sfide e problemi comuni. Un grande passo indietro che non risolverebbe le cause profonde delle migrazioni recenti, ma al contrario condannerebbe all’oblio gli ideali di giustizia europei.
Dopo Germania, Austria e Francia, ora anche i Paesi scandinavi sostengono che l’assenza di frontiere è troppo rischiosa e che bisogna tornare a intensificare i controlli sui flussi di immigrati e richiedenti asilo. Anche se questa fosse l’unica strada possibile, la soluzione dovrebbe essere d’intensificare i controlli sui confini esterni e non ergere nuovi muri nel cuore della libera Europa.
Schengen non si salverà con la conservazione dell’esistente, ma con il coraggio di compiere quei passi su cui l’Europa ha sempre indugiato: realizzare la sua evoluzione, completando l’unione monetaria e l’unione politica. Insomma, perseguendo obiettivi coraggiosi come quelli che lo stesso Trattato di Schengen ha realizzato, abolendo controlli interni tra gli Stati firmatari e creando una frontiera esterna unica. È lì, su questa frontiera unica, che bisogna riportare i controlli e che bisogna implementare il coordinamento delle politiche migratorie. È lì, che ci si deve far riscoprire l’ideale europeo, perché se c’è una soluzione da trovare non è quella di tornare indietro ai confini, ma la sfida è far continuare il sogno ancora vivo, anzi la realtà di un’Europa unita.