Matteo Renzi: bilancio di due anni di governo
0Matteo Renzi. Bilancio di 24 mesi di attività del suo esecutivo . Lavoro, tasse, conti pubblici e spending review, banda larga e riforme tra promesse e risultati raggiunti.
Sono passati 2 anni da quel 22 febbraio 2014 quando Matteo Renzi, allora segretario del PD, si insediò con il suo governo dopo l’incarico affidatogli dal Presidente Napolitano. L’allora sindaco di Firenze, arrivava dopo il Governo “tecnico” di Mario Monti e l’esecutivo di Enrico Letta, quest’ultimo sfiduciato qualche giorno prima dalla Direzione Nazionale del PD con un voto a larghissima maggioranza, su un documento dello stesso Renzi, il quale “suggeriva” la sostituzione del governo Letta. Il sindaco “rottamatore” diventava Premier 8senza passare per il voto popolare) e si presentava agli italiani con annunci e promesse.
E oggi per Renzi, è giunto il tempo di fare un primo bilancio dopo due anni di attività istituzionale. Cosa resta di quelle promesse e cosa è stato concretamente fatto dal Presidente del Consiglio più giovane della storia d’Italia (al momento dell’insediamento aveva 39 anni e e un mese)? Renzi ha illustrato a Palazzo Chigi, con l’ausilio di slide, l’operato di questi ultimi due anni. “Successo” e hashtag #ventiquattro le parole chiave della presentazione.
Si parte con la fiducia dei cittadini italiani cresciuta, secondo Renzi, e desumibile da diversi “indicatori”: aumento del numero di italiani che va al museo, numero di italiani (10 milioni) che ricevono 80 euro in più nella busta paga, eliminazione della Tasi, la tassa sulla prima casa (con la Legge di Stabilità 2016, che però compromette notevolmente l’autonomia tributaria dei comuni) e anche il numero di ragazzi che svolge il servizio civile (oggi più di 35 mila). E pazienza se a molti di questi ragazzi fa giustamente più gola il guadagno mensile netto di 433, 80 euro (per la serie “in tempo di carestia, ogni buco è galleria”) che lo “spirito di patria”.
Lavoro e disoccupazione. Secondo Renzi attraverso gli incentivi per le aziende che assumono nuovi lavoratori e il Jobs Act (assunzioni, forme contrattuali, “pensionamento” dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, etc.) si è avuto un calo della disoccupazione dal 13,1% all’11,4% (quella giovanile addirittura dal 43,6% al 37,9%). A supporto di questi dati, e attraverso l’Osservatorio sul precariato, l’Inps ha pubblicato il Report (Gennaio-dicembre 2015) che evidenzia risultati “buoni” in termini di occupazione. Eccone alcuni: assunzioni nel privato (con contratto a tempo indeterminato) + 600 mila, a fronte delle cessazioni di lavoro (per pensionamento, licenziamento o altri motivi) in calo del 2%. Per quanto riguarda i contratti a tempo indeterminato, l’Inps registra un +50% ma la crescita riguarda le “trasformazioni” cioè i dipendenti dell’azienda a contratto determinato che sono passati, nell’azienda stessa, all’indeterminato. Quindi non si tratta di nuove assunzioni. Inoltre l’Inps, che analizza i rapporti di lavoro, non è l’Istat che invece stima il numero di occupati: “La differenza tra i due dati” come ricorda l’Inps “sta nel fatto che uno stesso individuo può avere diversi rapporti di lavoro, mentre per l’Istat rappresenta uno e un solo lavoratore occupato”. Pertanto, secondo l’Istat, la crescita annuale del numero di lavoratori è stati pari allo 0,5% (circa 112mila nuovi posti di lavoro) a fronte di una crescita economica dello 0,7% (tra le più basse d’Europa). Non un mega successo ma un “timido progresso” da attribuire alla nuova legge sul lavoro e agli sgravi contributivi alle imprese o alla flebile ripresa dell’economia? Restano ancora da completare le politiche attive che servono al lavoratore che ha perso il posto di lavoro a ricollocarsi, in tempi brevi: l’Agenzia nazionale delle politiche attive (Anpal) è stata creata ma non è ancora operativa.
Italicum e riforma del Senato. In questi due anni c’è stata anche l’approvazione della legge elettorale – il cosiddetto “Italicum”, legge 52/2015 – e il contestato premio di maggioranza alla prima lista e non alla prima coalizione, definito eccessivo (340 seggi per chi raccoglie più del 40% dei suffragi). La legge entrerà in vigore a luglio 2016 (fino ad allora se si dovesse votare, lo si farebbe con la legge proporzionale uscita dalla sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale). Più complessa e ancora “in attesa” la riforma costituzionale (prevista del Patto del Nazareno, come l’Italicum del resto) che prevede la fine del bicameralismo perfetto e l’abolizione della “navetta parlamentare” e cioè: il potere legislativo alla sola Camera dei deputati (unica a votare la fiducia) e Senato composto da rappresentanti delle regioni e dei sindaci.
Mercati e concorrenza. Tra intervento pubblico e liberismo, è approdato al Senato, dopo il passaggio alla Camera, il ddl sulla concorrenza che interviene su poste, banche e assicurazioni, comunicazioni, energia, servizi professionali e sanitari in un’ottica di maggiore efficienza e minori ostacoli alla crescita economica. Almeno nelle intenzioni. Poi nei vari passaggi parlamentari sono prevalse le logiche partitiche e dei gruppi di pressione e molto, del testo iniziale, si è perso per strada. Dure reazioni da parte dei consumatori e delle categorie professionali coinvolte. Meglio sarebbe, dice Lavoce.info “pensare a strumenti, quali la legge delega, che lascino al parlamento il compito di indirizzo generale, ma poi pongano al riparo l’implementazione della legge dal potere di interdizione delle mille lobby”.
Banda larga. Per un’infrastruttura essenziale per la crescita e la competitività di un Paese come l’Italia che, in questo campo è fortemente in ritardo, il governo Renzi ha messo a punto uno piano strategico di sviluppo della banda larga (copertura banda ultra larga: dal 12% al 42%) dopo l’accordo Stato-regioni: 1,5 miliardi nazionali (e non più i 2,2 miliardi annunciati ad agosto) più quelli dei Fondi europei regionali per un totale di 3 miliardi. Ciò porterà però a un’Italia divisa in due: le aree più ricche aiutate dagli investimenti degli operatori, Tim in testa mentre le altre, dovranno sperare nell’implementazione del Piano del governo nel più breve tempo possibile.
La scuola. Approvata la riforma della “Buona scuola”. Discussa e contestata, soprattutto dagli insegnanti. Aspetto più tormentato: le assunzioni. Alla fine 87 mila, alle quali andrebbero sommate quelle del super concorso il cui bando è stato appena pubblicato e che vedrà partecipare 200 mila persone, per le quali questo concorso, il primo dal 2012, rappresenta l’ultima speranza pena il precariato fino al 2020. Altri aspetti della riforma, la digitalizzazione e il Piano digitale e la valutazione di docenti e strutture scolastiche, sono ancora da definire. Per quanto riguarda il piano straordinario avviato per il reclutamento dei ricercatori nelle Università italiane, brucia la recente figuraccia del Governo Renzi sul caso della ricercatrice italiana Roberta D’Alessandro, direttrice del dipartimento di Lingua e cultura italiana di Leida (Olanda) vincitrice del prestigioso bando ERC Consolidator.
Tasse e pressione fiscale. Due anni fa Renzi annunciava la riduzione a due cifre del cuneo fiscale. Obiettivo raggiunto solo in parte: la Cgia di Mestre ha calcolato che le misure prese dal Governo Renzi hanno ridotto il cuneo fiscale del 4,4%. Ma quali gli interventi del governo per tagliare il cuneo fiscale sul lavoro, molto alto in Italia? In primo luogo, il bonus di 80 euro (che ha tagliato l’Irpef per i dipendenti con un reddito al di sotto di una determinata soglia ed è stato reso permanente dalla Legge di stabilità 2015). Poi, gli sgravi contributivi (riduzione Irap e quella prossima dell’Ires) per chi assume a tempo indeterminato. Tutte misure che dovrebbero rendere il nostro Paese più competitivo dal punto di vista produttivo e spingere la domanda interna. Critiche: il bonus implica maggiore spesa pubblica perché non è una detrazione ma un “trasferimento”, dovrebbe riguardare un range più ampio di lavoratori e, il carico fiscale dovrebbe essere spostato dai fattori produttivi ai consumi e ai patrimoni.
In tema di fisco, bisognerebbe giudicare l’efficacia dei provvedimenti del governo Renzi sulla base di un unico parametro: la loro sostenibilità per il bilancio dello Stato. In un contesto di crescita così debole, aumentare il deficit per coprire gran parte degli interventi promessi è rischioso. In più, come ricorda Lavoce.info “C’è un convitato di pietra: le clausole di salvaguardia. Si tratta di incrementi automatici delle imposte [Iva e accise su carburanti in caso di mancati interventi sulle spese] che la legge di Stabilità del 2014 ha previsto dal 2016 al 2018. In pratica: ora riduciamo le imposte, ma non ci sarà alcun buco di bilancio perché nel frattempo si rafforzerà la crescita e faremo la spending review. Se poi tra un paio d’anni il deficit sarà più alto del previsto, la legge già prevede un aumento delle imposte che ci permetterà di rispettare gli impegni sui conti pubblici”.
Le banche. È del gennaio 2015 il decreto legge che ha riformato la governance delle banche popolari, imponendo a quelle con un attivo maggiore agli otto miliardi, la trasformazione in società per azioni. Interventi anche nel settore delle banche di credito cooperativo con il decreto del febbraio 2016. Infine, la partita più difficile: il salvataggio delle quattro banche regionali: Banca Marche, Popolare Etruria, CariFerrara e CariChieti con il decreto novembre 2015 che ha avviato una procedura di “risoluzione” che ha causato pesanti perdite per i risparmiatori (poi il Governo ha dovuto stanziare 100 milioni di euro per risarcire, almeno in parte, gli azionisti più colpiti).
Conclusioni.
Primo: una riforma del lavoro fortemente voluta, che ha agevolato una ripresa momentanea dell’occupazione, meno rivoluzionaria di quello che ci si aspettava anche perché esclude i dipendenti pubblici.
Secondo: taglio delle tasse ma rischio insostenibilità del debito pubblico e poca attenzione alla lotta all’evasione.
Terzo, le riforme istituzionali: via all’Italicum, riforma del Senato in discussione, via le province e il CNEL con il ddl Boschi. Approvata la riforma della Pubblica amministrazione, si è in attesa dei decreti attuativi. E la riduzione delle società controllate da enti pubblici cioè le partecipate? Tra gli obiettivi principali di Renzi, in merito quasi nulla è stato fatto. Obiettivo numero uno dell’ex sindaco “rottamatore” era la crescita economica. Molti i palliativi, frutto di una logica non economica ma orientata al consenso. A spaventare è sempre lo spauracchio della spending review, male assoluto per chi spera di vincere le elezioni. Meglio agire con dosi di “fiducia” sotto forma di denaro pubblico.
Alcuni degli annunci sono rimasti tali, altri sono stati realizzati parzialmente e altri ancora sono andati a buon fine. Successi e insuccessi. Ma quanto è da attribuire alle capacità del governo e quanto alle variabili esterne (calo del prezzo del greggio e politiche monetarie e fiscali BCE)?
(di Alessandra Esposito)