Tecnici italiani uccisi: l’Italia ha fatto tutto il possibile?
La vedova di uno dei due tecnici uccisi in Libia: “Lo Stato italiano ha fallito: la liberazione dei due ostaggi è stata pagata con il sangue di mio marito”
Sono tornati a casa 2 dei 4 tecnici italiani rapiti lo scorso luglio in Libia, dove lavoravano per la Bonatti (società di costruzioni, contractor della “Mellitah Oiland Gas”, società libica “proxy” con cui Eni, attraverso la holding Noc, gestisce l’estrazione di migliaia di barili di petrolio e il flusso di gas di Greenstream).
Gino Pollicardo e Filippo Calcagno hanno potuto riabbracciare le loro famiglie mentre le bare dei loro colleghi Fausto Piano e Salvatore Failla, i due tecnici italiani rimasti uccisi nella polveriera libica, sono state accolte qualche giorno dopo all’aeroporto di Ciampino, dalle autorità presenti, primo fra tutti il ministro degli esteri Paolo Gentiloni e dalle loro famiglie, composte nel loro immenso dolore.
Rientravano dalla Tunisia dopo un periodo di vacanza in Italia: i 4 tecnici erano stati rapiti il 20 luglio 2015 a Sebrata, in Libia, nell’impianto gasiero dell’Eni di Mellitah, da dove parte il gasdotto Greenstream. In quell’occasione, per le modalità del rapimento, una fonte di Palazzo Chigi aveva riferito dell’irritazione del governo verso la società Bonatti e la stessa Eni per aver mandato i loro tecnici “allo sbaraglio, per l’incredibile leggerezza con cui aziende italiane strategiche impegnate in un quadrante di mondo dove l’Italia non ha più un’ambasciata e dove i protocolli di sicurezza devono essere stringenti, non hanno evidentemente saputo proteggere i propri dipendenti integrando le proprie procedure“.
Rapimento, liberazione di due ostaggi, uccisione di altri due e il braccio di ferro finale che ha ritardato il rimpatrio dei vivi e dei morti: un personaggio discusso, Hussein Al Dhawadi (conosciuto anche come Al Zawadi), il “sindaco” di Sabrata ha ritardato l’arrivo in Italia dei 2 ostaggi liberati, perché pretendeva che una delegazione italiana andasse a ringraziarlo per il presunto ruolo avuto nella liberazione dei due italiani. Mentre, per quanto riguarda i corpi di Failla e Piano sono stati trattenuti a Tripoli per le autopsie e le altre procedure di rito, prima del rientro in Italia.
“Lo Stato italiano ha fallito: la liberazione dei due ostaggi è stata pagata con il sangue di mio marito“, ha affermato la vedova di Salvatore Failla. “Se lo Stato non è stato capace di riportarmelo vivo ora almeno non lo faccia toccare in Libia, non voglio che l’autopsia venga fatta lì. Stanno trattando la salma come carne da macello nessuno, tra questi che stanno esultando per la liberazione ha avuto il coraggio di telefonarmi“. Ma l’autopsia a Tripoli è stata eseguita e il legale della famiglia Failla ha confermato che è stata un “macelleria”.
Il figlio di Fausto Piano (di Cagliari) ha rotto il silenzio “Lo Stato ci deve dire la verità sulla sua morte. Non abbiamo nominato nessun legale, quello che chiediamo in questo momento sono solo le risposte alle nostre domande. Ci devono spiegare cosa è accaduto veramente e perché mio padre ed il suo collega sono morti.”
La procura di Roma ha aperto un’inchiesta sulla morte dei due connazionali e sulla liberazione di Pollicardo e Calcagno e attende l’invio del materiale investigativo dalla Libia. Ai PM, i due superstiti del sequestro hanno riferito di essere stati tenuti prigionieri da un gruppo islamista non direttamente riconducibile all’Isis, quasi certamente una banda di criminali comuni. Pollicardo e Calcagno hanno raccontato delle violenze psicologiche e fisiche subite per quasi otto mesi. I due sarebbero riusciti a liberarsi da soli dopo che i carcerieri avevano prelevato Failla e Piano forse per trasferirli in una nuova prigione. Da allora, Pollicardo e Calcagno hanno riferito che di non aver più incontrato i loro carcerieri, di non aver ricevuto né acqua né cibo e di aver deciso di buttare giù la porta della loro prigione dalla quale sono riusciti a fuggire. Tuttavia, rimane poca certezza sull’esatta dinamica che ha portato al loro rilascio e alla morte dei colleghi: blitz delle forze speciali o fuga, esecuzione o fuoco “amico”?
Il successo del lavoro diplomatico e di Intelligence per stabilizzare la Libia è fondamentale per evitare il ripetersi di fatti gravi come questo. La situazione in Libia è caotica. C’è un governo riconosciuto internazionalmente, il governo libico di Tobruk, guidato dal premier Abdullah al-Thani, e quello del governo islamista di Tripoli, che invece non è riconosciuto dalla comunità internazionale. In Libia agiscono indisturbati fazioni, criminali e predoni attivi anche nel controllo dei trafficanti di esseri umani sulla rotta per Lampedusa. E infatti, tra le motivazioni del rapimento, le piste più accreditate suggeriscono obiettivi criminali (cioè pagamento di un riscatto) o che i trafficanti di esseri umani abbiano agito per vendicarsi della missione che vuole individuare “le navi che salpano dalla Libia per l’Europa”. Esclusa l’ipotesi che il sequestro sia un messaggio all’Italia per il ruolo svolto nella crisi libica. Quindi nessuna motivazione politica dietro il rapimento. Pare.
E come consuetudine, ci si chiede se il nostro Governo abbia fatto tutto il possibile. Premesso che per ovvi motivi legati al non intralciare le indagini, non sono disponibili tutte le informazioni e quindi risulta incompleto ogni tentativo di esatta ricostruzione della vicenda, è bene aggiungere che al momento del rapimento, fonti del governo italiano hanno riferito che la società di appartenenza dei tecnici italiani non aveva adottato nessuna precauzione o seguito alcun protocollo di sicurezza al momento del trasferimento dei propri dipendenti dalla Tunisia in Libia. Anzi, il viaggio di ritorno verso la Libia era stato modificato in corso proprio dall’operation manager della Bonatti: non più il pernottamento in Tunisia per poi proseguire verso Mellitah via mare ma, continuazione del viaggio via terra. Perchè?
In questi quadranti di guerra non esistono garanzie assolute né presunte “immunità” che si possono ottenere con il denaro oppure agendo sotto “l’ombrello del gigante Eni”, che ha dei protocolli di sicurezza che evidentemente la Bonatti non ha rispettato o comunque non condivide con Eni (gestore dell’impianto che, ad esempio da febbraio 2015, prevede che tutto il personale Eni ancora in Libia, si trovi sulle piattaforme off-shore e i trasferimenti a terra, qualora necessari, avvengano solo via mare dopo trasferimento in elicottero a Malta). Nessun commento per ora dalla Bonatti “Non siamo autorizzati a rilasciare alcun commento“, è la risposta alle richieste di informazioni.
La Farnesina e il governo italiano hanno seguito un protocollo preciso. Al momento del rapimento, sono partiti subito i tentativi dell’Intelligence di individuare e stabilire il canale migliore per negoziare con il gruppo dei sequestratori. Compito difficile visto le numerose milizie tribali contrapposte le une alle altre che imperversano nel Paese. Individuato il contatto, sono partite le trattative per capire quale era la contropartita richiesta (denaro o altro). Da qui poi l’inattendibilità dei mediatori, l’impossibilità di capire se i rapiti si trovavano ancora nelle mani di un gruppo criminale e non di fanatici dell’Isis e il tragico esito finale. Negoziare in contesti quale quello libico è molto difficile nonché esposto a diverse variabili non sempre prevedibili. Smentite ufficialmente le notizie relative a un riscatto pagato, è invece certo che il negoziato con i rapitori era in dirittura d’arrivo, con una qualche contropartita (non necessariamente in denaro) in via di definizione.
(di Alessandra Esposito)