Salvo Riina a Porta a Porta. Vespa e i messaggi mafiosi sulla TV di Stato

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Salvo Riina ospite di Bruno Vespa. La Rai regala il palcoscenico della tv di Stato ai pensieri mafiosi del figlio di Totò “u curtu”

Mercoledì 6 aprile, ore 23.35, Rai 1. Nel monitor del salotto di Porta a Porta compare la faccia di Giuseppe Salvatore (Salvo) Riina, figlio del boss mafioso Totò Riina che, con sguardo placido e imperturbabile, si prepara ad affrontare le domande di Bruno Vespa. Di lì a pochi minuti si comprende che, in realtà, non c’è proprio nulla da affrontare: Riina junior esprime senza troppe difficoltà pensieri (mafiosi), nella seconda serata del primo canale del servizio pubblico.

Inutile analizzare, in questa sede, la bontà e il valore delle polemiche giunte prima e in seguito all’evento televisivo (perché, in fin dei conti, come tale è stato trattato): apologia della mafia, negazionismo, diseducazione, scelta scellerata. Queste sono le parole che sono state più volte pronunciate nel corso della settimana e che, probabilmente, hanno contribuito a spostare l’attenzione dal centro della questione. Che non è decidere se sia legittimo se intervistare o meno un mafioso. Siamo tutti d’accordo che, tra i doveri dell’informazione, c’è anche quello di raccontare il male, attraverso l’ascolto diretto dei colpevoli di turno. La censura, dopotutto, non è mai giustificata e proporre la versione degli “antagonisti” ha il suo valore educativo. Conoscere per valutare. Su questo non esiste alcun dubbio.

Gli aspetti su cui ragionare, a proposito dell’intervista a Salvo Riina, sono altri. In primis, gli obiettivi a cui avrebbe dovuto tendere l’incontro. “Il giornalista deve rispettare, coltivare e difendere il diritto all’informazione di tutti i cittadini; per questo ricerca e diffonde ogni notizia o informazione che ritenga di pubblico interesse, nel rispetto della verità e con la maggiore accuratezza possibile”. Così recita la Carta dei Doveri del giornalista, la “Bibbia” dei professionisti del settore. Alcune domande, a questo punto, sorgono spontanee. Dalle parole di Salvo Riina, quale informazione di pubblico interesse è emersa? Quale contributo significativo è giunto dall’intervista andata in onda? Forse, che i piccoli Riina non sono mai andati a scuola come gli altri bambini e che quindi erano «una sorta di famiglia diversa» (bella scoperta, verrebbe da dire)? Oppure che la mamma, Ninetta Bagarella, ancora bambina si innamorò «dei valori di questo uomo forte» che appena uscito dal carcere dopo la prima condanna andava a trovare la famiglia Bagarella? O forse ancora, la freddezza con cui Riina jr osserva le immagini della strage di Capaci e dell’attentato al giudice Borsellino, ordinati dal quel «padre giusto e tutto d’un pezzo», idolatrato dall’intervistato? Un ritratto di famiglia: così Bruno Vespa anticipa il risultato emerso dall’incontro. Ma cosa ce ne dovremmo fare del ritratto di una famiglia mafiosa, fatto da un figlio che ha scontato una pena di otto anni per mafia e che non afferma neanche per un attimo l’atrocità degli atti compiuti dal padre?

In un caso di tal genere, è compito del giornalista intervenire per riportare la conversazione sui giusti binari o, addirittura, porre fine a quello che rischia di diventare uno show grottesco e criminale. Perché, se di fronte a risposte come: “Non so cosa sia la mafia. Oggi la mafia può essere tutto e nulla», il giornalista non reagisce, non ribatte, non si infervora, c’è evidentemente qualcosa che non quadra. Questo, purtroppo, è successo nel salotto di Porta a Porta che, appunto, è un salotto dove passano personaggi di ogni tipo e dove, tra un plastico e l’altro, si commentano anche fatti di cronaca e malavita (talvolta con estrema leggerezza). E non si può pensare di proporre l’intervista a Salvo Riina in un salotto dove, di fatto, si è dimostrato che si chiacchiera e non si fa informazione. Da qui nasce il messaggio diseducativo: dalla scelta di inserire un contenuto di tal genere in un contenitore televisivo che più volte si è dimostrato giornalisticamente inadatto e dall’incapacità del giornalista (o meglio, del padrone di casa di questo salotto) di fronteggiare alcune affermazioni.

Rosy Bindi, presidente della Commissione Antimafia, ha riassunto perfettamente il problema: «Era chiaro che era lui che conduceva la partita (riferendosi a Salvo Riina)». E questo non può accadere, ancor più in una rete del servizio pubblico.

A seguito delle polemiche emerse, è giunta la lettera di chiarimenti di Bruno Vespa, pubblicata dal Corriere della sera nella quale il padron di Porta a Porta indica esempi di giornalisti del passato che hanno condotto interviste a criminali senza alzare alcun polverone. Biagi, Marrazzo, Zavoli: nomi illustri che si sono trovati faccia a faccia con mafiosi e terroristi. Ora, a parte il livello giornalistico tanto elevato da non poter essere paragonato a quello presente nel talk show in questione e che non necessita di parole e descrizioni, la differenza che emerge ruota attorno al particolare probabilmente più importante della vicenda. Perché esiste qualcosa che disgusta ancor di più del mutismo e dei messaggi criminali avallati dai silenzi del conduttore: è la combinazione mortale tra informazione e propaganda. La serata è stata occasione anche per pubblicizzare il libro del mafioso intervistato. Non è sopportabile un’intervista a Salvo Riina sfacciatamente pubblicitaria. Più volte il conduttore ha ripetuto ad introduzione delle domande la formula «nel suo libro edito da Anordest , lei racconta…».

Non è questa la sede per giudicare la scelta dell’editore che ha pubblicato il libro in questione (discutibile tanto quanto l’intervista di Vespa) ma, in quanto alla dicotomia propaganda/ informazione risuonano di nuovo le parole della Carta dei Doveri: “il giornalista deve sempre rendere riconoscibile l’informazione pubblicitaria e deve comunque porre il pubblico in grado di riconoscere il lavoro giornalistico dal messaggio promozionale”. Questo, aldilà delle diverse opinioni che possono essere maturate nei confronti della vicenda, non è accaduto.

Per questo motivo e per i tanti altri sottolineati, per la mancanza di rispetto per le vittime di mafia, per i cronisti quotidianamente minacciati e per quanti sono in prima fila a combattere un virus che non conosce confini, l’intervista di Bruno Vespa ha rappresentato un’offesa per i veri professionisti del settore giornalistico che credono e rispettano i principi fondanti di questo lavoro, accogliendone oneri e onori.

(di Giulia Cara)

Fonte immagine: huffingtonpost.it

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