Mio nonno era fascista. Angosce e tormenti di un trentenne nel 1943

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Ho ritrovato mio nonno in un plico rosso e consunto. Venti lettere in carta velina dalla prigionia. In quelle lettere c’è il trentenne Vincenzo Arena. Trent’anni e poco più nel 1943-44. Trent’anni e poco più, come me ora. Il timbro di tre campi di concentramento. Deblin Irena, Prezmysl, Norimberga. E su tutte le prime parole: “Mia cara…”

Mio nonno era fascista. Faccio il verso a Pierluigi Battista e al suo recente libro “Mio padre era fascista” e ci aggiungo una generazione. La mia. Mio nonno, classe  1910. Vincenzo Arena all’anagrafe. Siciliano di nascita, pugliese – “per amore” – di adozione. Cito Battista perchè nelle pagine del suo libro, credo di aver ritrovato mio nonno o almeno l’eco delle sue angosce, dei sue tormenti mai realmente confessati. Non confessati a mio padre, non confessati alle mie zie. Angosce volontariamente chiuse a chiave in un angolo oscuro del suo mondo interiore. I tormenti di una vita che l’ha visto schierarsi a vent’anni “dalla parte sbagliata”, direbbe la retorica antifascista, come milioni di italiani. E che l’ha visto anche nel dopoguerra – con tutti i contro che ne sono conseguiti – non rinnegarla quella parte, come milioni d’italiani, poco prima fascisti, invece fecero.

La parte sbagliata, la parte giusta: “concetti che sono molto più friabili e complicati di quanto ci piacerebbe immaginare”, dice Battista. Aggiungendo: “gli esseri umani non sono monoliti, figure unidimensionali sulle quali incollare un’etichetta semplificatrice, ma persone vitali e vitalmente piene di contraddizioni”. Da qualche anno sto cercando di scoprire chi è stato davvero Vincenzo Arena, classe 1910. Il trentenne Vincenzo Arena, l’uomo che alla mia età di oggi partì volontario in guerra e per molti mesi – dopo l’8 settembre – scelse i campi di internamento nazisti. L’ho cercato nei suoi libri impolverati, l’ho cercato nei suoi appunti fitti fitti, nei pochi scarni racconti tramandati in famiglia di chi quel trentenne lo aveva conosciuto o solo incrociato.

Ma un paio di anni fa credo di averlo trovato finalmente. In un plico rosso e consunto, abbandonato fra un mucchio di carte mai attentamente esplorate da nessuno in famiglia. Venti lettere in carta velina dalla prigionia. Lì dentro c’era il trentenne Vincenzo Arena. Il timbro di tre campi di concentramento, due in Polonia e uno in Germania: Deblin Irena, Prezmysl, Norimberga. E su tutte le prime parole: “Mia cara…”

Battista: “Quando, dopo la sua morte, ho letto il diario che aveva custodito nel segreto per tutta la vita, mi è parso di avere una percezione più chiara del tormento che ha dilaniato per decenni mio padre fascista”. Di fronte alle lettere di mio nonno a mia nonna ho avuto la stessa limpida percezione: un uomo – non un’ etichetta – un padre, un marito innamorato – non un monolite – che non desidera altro che la tempesta passi e che il gelo del vento polacco si plachi e lasci il posto alla brezza del mare pugliese.

Attorno a queste lettere sto provando a costruire il racconto della storia di un uomo. Uguale e diversa a quella di tante altre storie di uomini del suo tempo. Uguale e diversa. Una storia fatta di lacrime, di scelte che dalla lettura delle sue lettere immagino sofferte; come quella di aderire alla Repubblica Sociale dopo mesi di prigionia. Forse solo per far ritorno in patria e aver salva la vita. A Salò il capitano Arena non ci andò mai e solo a giugno ’45 riuscì a riabbracciare i suoi cari, facendo ritorno in Puglia.

Una storia fatta, di privazioni, di piaghe e compagni persi per strada, morti ammazzati in guerra o di stenti nei blocchi dei lager. Una storia custodita gelosamente e non raccontata. Per pudore? Per rabbia? Per orgoglio? Per senso di colpa? Una storia come tante in quegli anni! Umanissima e per questo piena di contraddizioni. Una storia che a due generazioni di distanza credo sia importante raccontare senza i vizi della retorica ideologica.

Ve ne lascio il primo pezzo.  Un breve racconto costruito attorno alla prima lettera a firma del capitano Arena di cui ho traccia. Era il 10 novembre del 1943.

Deblin, Blocco I Stalag 307. Una camerata lunga venti passi e larga dieci al primo piano di una fortezza che si erge su un promontorio all’incrocio fra la Vistola e un affluente. La tempesta di neve sferza le finestre di vetro sottile, costrette dietro fitte sbarre di ferro, in una gelida notte polacca del ’43. Le porte sbarrate in   fondo alle camerate crepitano. Il fiume ulula ai piedi della fortezza.

Una luce fioca balugina dietro una delle quattro finestre  sul lato lungo ad est. La fiamma debole di una candela illumina il volto scavato di un uomo. Al secondo piano di una torre di letti di legno tarlato e sporco, il capitano Arena condivide due metri di materasso con tre compagni.

Avviluppato in una coperta consunta di lana grigia, seduto con le gambe incrociate e con  la candela nella mano sinistra, fa scorrere la destra – che afferra una matita – su un pezzo di carta velina adagiato sulla copertina rigida di un libro usato come improvvisato scrittoio.

“Mia cara finalmente posso scriverti con la certezza di darti mie nuove. Stai tranquilla e abbi fede. Come stai? E le piccole? Maria Grazia si ricorda del suo papà? Il giorno del suo compleanno sono arrivato, dopo un lungo viaggio cominciato il 20 settembre, a destinazione. Un segno di buon augurio, non ti pare?  Hai avuto notizie dei miei di Sicilia? Baciami forte Maria Grazia e Rita. Le ricordo sempre con tanto affetto e spero presto di poterle  abbracciare. Rita non ha ancora conosciuto il suo papà. Quanti boccoli le cadono sulla fronte? Piange tanto di notte? Che sofferenza non poterla cullare fra  le mie braccia. Solo la speranza di rivedervi mi tiene ancora in vita. Siamo ammassati in una camerata che potrebbe contenere al massimo 40 persone. Ma poco male! Il calore di decine di corpi pur malconci riscalda  uno stanzone gelido. Il puzzo che vien su dalle latrine nel cortile all’aperto sale sino alle camerate ed è asfissiante. Ma poco male! Dopo qualche giorno non ci si fa più caso. Mi tiene vivo il pensiero di te e delle nostre piccole. Ricordi la sera stellata prima della mia partenza? L`albero d’ulivo nel giardino di casa che faceva suonare le piccole foglie e accompagnava i nostri baci? A te il mio costante pensiero e tutto il  mio amore. Prega Iddio. Ti abbraccio e bacio. Tuo, per sempre. Vincenzo”.

Arena piega in tre la lettera, la accarezza e la mette nella fodera interna della giacca sudicia di panno che gli cade addosso sformata. Soffia sulla candela e si distende su un fianco. Chiude le palpebre e sente scoppiare il fragore delle onde sugli scogli. Il mare blu davanti, due mani intrecciate, due cuori che battono al ritmo delle onde. Penetra un fioco raggio di sole dalla finestra sul lato est.

Il Capitan Arena schiude le palpebre, serra le labbra e trattiene il sapore di un bacio lontano.

(di Vincenzo Arena)

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