Regno Unito, verso il referendum: UE o Brexit?
Brexit. A dieci giorni dal referendum sulla permanenza o sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea si infiamma il dibattito tra euro-sostenitori ed euroscettici. Al centro della campagna referendaria i temi e i possibili scenari in caso di uscita prevalgono sugli indirizzi degli schieramenti politici.
Il referendum del 23 giugno è alle porte. Nel Regno Unito e in tutta l’Unione europea cresce l’attesa per un voto destinato a incidere sugli assetti politici ed economici del Vecchio continente e a influenzare gli equilibri sociali soprattutto in patria. Il Paese è diviso tra il fronte del “Leave” (la cosiddetta “Brexit”, l’uscita dall’UE) e quello del “Remain” (restare nell’UE). A 41 anni dalla consultazione popolare del 1975 sulla permanenza nella Comunità Economica Europea (CEE), che vide i “sì” trionfare con il 67,5% dei voti, il Regno Unito è chiamato a decidere nuovamente sul tema europeo con le conseguenze che l’eventuale successo della Brexit comporterebbe all’indomani del voto.
Il referendum del 2016 è inevitabilmente diverso, influenzato dai cambiamenti intercorsi con l’avvento della globalizzazione, dall’aumento dei flussi migratori e più di recente dalla minaccia terrorista, per citare i più significativi. Dai partiti politici nessun invito all’astensione, celato o ampiamente caldeggiato, come avviene in Italia, dato che il sistema elettorale britannico non prevede il raggiungimento del quorum per la validità dei risultati. La partita si gioca su ogni singolo voto. L’esito del referendum, tuttavia, non è vincolante per il Governo, come sancisce l’European Referendum Act 2015, ma tale ipotesi risulterebbe altamente improbabile.
Le riflessioni della conferenza annuale “The UK in a changing Europe”
Dopo la proroga per la registrazione online, gli aventi diritto al voto continuano ad informarsi in vista del voto, seguendo i dibattiti televisivi, le discussioni sui social media, i sondaggi altalenanti e i numerosi incontri promossi sui temi del referendum. Tra gli appuntamenti più partecipati la conferenza annuale dell’ente indipendente di ricerca “The UK in a changing Europe” (Il Regno Unito in un’Europa che cambia), che si è svolta il 10 giugno nel centro Queen Elizabeth II, a due passi da Westminster. Fitto il programma degli incontri dedicati al tema “The EU: Get Informed. Get the facts”, a cura dell’ente per lo studio delle relazioni tra il Regno Unito e l’Unione europea, guidato dal professor Anand Menon e composto da un gruppo di studiosi che fa capo al King’s College di Londra.
Dalla giornata dei lavori è emerso il clima di attesa e altrettanta incertezza, che ha accompagnato il periodo referendario, denominato “Purdah”, dall’annuncio della consultazione a febbraio fino agli ultimi giorni precedenti il voto. La maggioranza dei Conservatori, con il premier David Cameron in testa, è a favore del “Sì”, ovvero della permanenza in Europa, come gran parte dei Laburisti, dei Verdi e dei Liberaldemocratici, l’UKIP, il partito indipendentista di Farage e molti esponenti conservatori, tra cui l’ex sindaco di Londra Boris Johnson, al contrario, sono in prima fila per il “No”, ovvero l’uscita dall’Unione Europea. Il dibattito, dunque, divide fortemente gli schieramenti politici anche al loro interno. Il rappresentante dei Laburisti, Ed Miliban, nel suo intervento al Queen Elisabeth II Centre, ha dichiarato che la permanenza nell’Unione costituirebbe “un vantaggio per i diritti dei lavoratori”, mentre l’esponente conservatore Ian Duncan Smith, già segretario di Stato per il Lavoro e le Pensioni dal 2010 al 2016, ha motivato il suo sostegno alla Brexit, dopo a lungo aver sostenuto le ragioni del mercato comune, citando Altiero Spinelli, uno dei padri fondatori del progetto europeo, per dissociarsi dall’idea di un “super stato” europeo di tipo federale.
La componente territoriale, a livello nazionale e sovranazionale, gioca un ruolo importante nel dibattito referendario. Il professor Michael Keating, direttore del Centre on Constitutional Change di Edimburgo ha posto l’accento sui cambiamenti costituzionali e i processi di devolution, alcuni già in atto in Galles, che deriverebbero da un’eventuale uscita dall’Unione. L’opinione pubblica nel Regno Unito risulta abbastanza divisa, soprattutto in Inghilterra, con una leggera prevalenza dei “Sì” in Scozia – dove però la Brexit riaprirebbe il dibattito per un nuovo referendum sull’indipendenza – e una più netta maggioranza dei “Sì” in Irlanda del Nord. I social media offrono un ritratto per certi versi sorprendente: in Scozia il dibattito costituzionale suscitato dal referendum è tra i primi 20 “trending topics” su Twitter, che risulta anche il mezzo più polarizzato a favore della campagna “Leave”, ma solo lo 0,6% dei tweet si riferisce effettivamente al referendum, il resto, invece, è dedicato all’Europa. La stessa percezione si evince dalla galleria fotografica #myimageoftheEU presentata dal Laboratorio di ricerca neuropolitica (NRLabs) di Edimburgo guidato da Laura Cram, la quale ha sottolineato che la quasi totalità delle immagini postate riguarda i vari aspetti dei viaggi in Europa piuttosto che l’Unione Europea.
Sotto la lente di ingrandimento di studiosi e sondaggisti ci sono in primo luogo la composizione e le ragioni dell’elettorato, esaminati dal professor John Curtice dell’Università di Strathclyde. I più giovani (18-24 anni) sono schierati per il “Remain”, mentre gli over 65 sono più orientati per il “Leave”, ma a fare la differenza più che l’età è il grado di istruzione. Da una serie di dati rilevati dall’istituto di ricerca YouGov emerge che il 71% di coloro che possiedono un titolo di studio elevato come la laurea intende votare “sì, diversamente da chi detiene un titolo di istruzione secondaria (GCSE) che per il 67% opterebbe per l’uscita dall’Ue. Se gli indecisi, soprattutto donne e giovani, fossero costretti a scegliere il 32% voterebbe “sì” contro un 20% di “no”.
To Leave or to Remain?
To Leave or to Remain? è la questione cardine attorno a cui ruotano il dibattito e di conseguenza i temi in campo che influenzano la percezione dell’opinione pubblica. Secondo un’altra rilevazione condotta da YouGov, il tema chiave per chi è orientato per l’uscita dall’UE è l’immigrazione (57%), seguito dal sistema sanitario nazionale (40%), a pari merito dall’influenza del Regno Unito e dall’economia (37%) e a poca distanza dal lavoro (35%). Le ragioni economiche (22%), il lavoro (21%) e il sistema sanitario nazionale (19%) sono predominanti per chi intende rimanere nell’UE. Gli esperti, con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale, guardano con particolare attenzione all’economia e all’immigrazione. Sempre stando ai sondaggi, in caso di Brexit, l’economia peggiorerebbe per il 78% dei sostenitori del “Remain”, mentre l’immigrazione diminuirebbe per l’87% dei sostenitori del “Leave”.
A sostegno delle ragioni del Sì” e del “No”, per ciascuno dei temi, è stato redatto l’opuscolo “Leave/Remain: the facts behind the claims” realizzato in collaborazione con Full Fact, organizzazione indipendente di factchecking, con l’obiettivo di fornire un’ottica il più imparziale possibile, dando spazio ai fatti più che alle opinioni. L’analisi tracciata dai ricercatori cerca di riportare il dibattito sui costi-benefici a partire da quelli più controversi sulla membership. Difficile, se non impossibile, determinare con esattezza costi o eventuali risparmi, affermano gli esperti. Gli assunti usati nella campagna vengono messi in dubbio e argomentati con dati o con il ricorso a fonti autorevoli. Come nel caso del mercato unico, dove viene messo in evidenza il peso degli accordi internazionali, valido anche in caso di Brexit o dei modelli cui ispirarsi, dopo un’eventuale uscita dall’Ue, come la Norvegia che, pur non facendo parte dell’UE, deve comunque conformarsi alle leggi europee pena un ristretto accesso al mercato, data l’adesione all’Accordo sullo Spazio Economico Europeo.
E in Italia, che peso avrà l’esito del referendum britannico?
Il giornalista de La Stampa Marco Zatterin, nel corso di una sessione dedicata agli scenari futuri del referendum, ha ammesso che “l’economia italiana soffrirebbe le conseguenze politiche di un disordine derivante dalla Brexit”, ma lo sguardo più che agli affari del Regno Unito è già rivolto al referendum costituzionale di ottobre, ha aggiunto. A proposito di referendum, in merito ad un possibile “effetto contagio” a partire dall’Italia, Zatterin ha precisato, tra lo stupore dei presenti, che una tale consultazione referendaria non sarebbe possibile. L’articolo 75 della Costituzione italiana, infatti, non prevede il referendum abrogativo sulle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, fattispecie che si estenderebbe, di fatto, anche ai rapporti con l’Unione Europea.
A pochi giorni dal voto, i sondaggi sono molto fluttuanti: l’ultimo diffuso dall’istituto ORB per il quotidiano The Independent darebbe i favorevoli all’uscita dall’UE in vantaggio di 10 punti percentuali (55% vs 45%), dopo mesi di sostanziale pareggio o di lieve predominanza degli euro-sostenitori. Gli scenari restano imprevedibili. Un nuovo equilibrio geopolitico, soprattutto in caso di vittoria dei “Sì”, è l’effetto più probabile ma ancora indecifrabile nei suoi sviluppi, mentre il più temuto resta il rischio di “referendum a catena” insieme alle ripercussioni sui mercati finanziari, a cui tutti, oltre Manica guardano con un misto di impazienza e apprensione.
(di Elena Angiargiu)
Fonte immagine: https://englandcalling.wordpress.com