Gomorra spopola anche sui social. Rischio emulazione?
Conclusa la seconda stagione della serie tv ispirata al romanzo di Saviano, si apre il dibattito sul racconto del male dal punto di vista del male: realismo 2.0 o rischio emulazione?
Si è appena conclusa la seconda stagione ed è già in cantiere la terza di “Gomorra”, la nota serie televisiva in onda su Sky Atlantic e ispirata all’omonimo romanzo di Roberto Saviano. Tra il plauso di molti spettatori ma anche molte critiche. In particolare quella che riguarda il rischio di emulazione che potrebbe generarsi soprattutto tra i più giovani a giudicare dalle diverse pagine facebook create ad hoc e dall’elevato numero di tweet generato dai numerosi fan.
Emulazione. Questo desiderio, comune anche agli animali, di imitare l’altro, di eguagliarlo e di superarlo, come se vivessimo in un perpetuo gioco di specchi dove alla fine dimentichiamo persino chi stiamo imitando e perché.
Negli ultimi tempi abbiamo sentito nominare più volte questo termine. Come se volessimo relegare all’emulazione l’incapacità dell’uomo di agire secondo uno spirito critico e autonomo. Si è parlato di emulazione a proposito dei tanti casi di donne uccise dai loro mariti, fidanzati, amanti che un tempo, magari anche mentre erano intenti a distruggere le loro vite, dicevano di amarle. E ne erano convinti. È questo l’aspetto più allarmante. Siamo convinti di stare dalla parte del “giusto”. Ma se si tratta solo di emulazione, allora perché non imitiamo comportamenti eticamente positivi e umanamente più utili?
Dunque, poco centra il modello trasmesso dalla televisione, anche perché il rapporto perverso tra il codice comportamentale della mafia e la sua rappresentazione-come nel caso di “Gomorra” o “Il Padrino” o altre serie- è da sempre esistito. Sono lontani i tempi in cui il piccolo schermo sfoggiava il suo potere educativo imponendosi nelle case degli italiani come una “scatola magica” contenente un mondo ancora sconosciuto. Oggi, invece, è più facile tacciare quello schermo di essere portatore di un modello negativo della realtà.
Si è anche parlato di realismo 2.0 dimenticando il discrimine tra realtà e finzione. Se fosse mai esistito. Che “Gomorra” sia un prodotto ispirato a fatti che accadono quotidianamente nella Napoli raccontata da Saviano, è fuori discussione. Come pure il fatto che si tratti di una scelta narrativa degli autori e dei registi quella di “raccontare il male dal punto di vista del male”. Eppure il rischio di irretire comportamenti, linguaggi e stili di vita della criminalità organizzata è sempre più alto. Almeno proporzionale all’ignoranza che si respira nelle famiglie “malavitose” e non solo. Tuttavia si tratta di un problema educativo che emerge dal prodotto “Gomorra” e non è causato da quest’ultimo. E non si tratta nemmeno di un fenomeno circoscritto alla realtà camorristica napoletana, s’intende. Lo scorso anno nel cuore di Bari vecchia fui attratta da un gruppo di ragazzini di età compresa tra gli otto e i dodici anni che si aggiravano con una mitragliatrice di plastica e giocavano a “spararsi in bocca” e orgogliosamente affermavano “quando sarò grande sarò un mafioso”.
La partita importante nella quale la nostra società e le nostre agenzie educative primarie e ovviamente lo Stato sono chiamati a giocare un ruolo fondamentale è quella che deve insegnare a riconoscere l’emulazione, positiva e negativa, ma soprattutto il coraggio di andare oltre uno schema, una rappresentazione precostituita.
Non raccontare le realtà come “Gomorra” significherebbe in parte autocensurarsi. Parlarne, secondo alcuni, potrebbe voler dire celebrare la criminalità. Soltanto conoscendo la realtà nella quale siamo immersi e allontanandoci dal modello fondato su un dualismo antitetico per cui o è tutto nero o è tutto bianco, in cui ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, potremmo scorgere un nuovo discrimine personale e autentico.
Perché questo Paese ha ancora bisogno che si raccontino storie come quella di Felicia Impastato e di tanti giornalisti uccisi dalla mafia. Perché questo Paese ha bisogno di sapere.
(di Anna Piscopo)