La Brexit spaventa la Premier League: addio al titolo di campionato più bello?
23 Giugno 2016: un giorno destinato ad entrare nella Storia, e solamente il tempo saprà dirci se nel bene o nel male. Chiamato ad esprimersi in merito alla permanenza nell’Unione Europea in seguito ad un referendum nato lo scorso anno per iniziativa di David Cameron, e concretizzatosi lo scorso giovedì, 46 milioni di cittadini inglesi, scozzesi, nord-irlandesi e gallesi hanno sancito la (risicata) volontà di abbandonare l’Unione Europea, sancendo ufficialmente la famigerata Brexit.
Sulla bontà della scelta del popolo britannico, sulle motivazioni che hanno incanalato le preferenze del 52% dello stesso, sulla spaccatura generazionale (giovani vs anziani) e geografica (Londra, Scozia e Nord Irlanda vs Inghilterra e Galles) si sono versati fiumi di inchiostro e parole al quale eviteremo in questa sede di aggiungere ulteriori considerazioni, soffermandoci su uno degli aspetti forse meno “importanti”, ma pur sempre relativo a un business in sterline da un numero di zeri tale da fargli assumere rilievo primario: gli effetti sul calcio d’oltremanica.
Le conseguenze che si ripercuoteranno sulle realtà calcistiche britanniche nel momento in cui la Brexit sarà portata a termine (e quindi, non prima di due stagioni), saranno quindi connesse al nuovo status di “extra-comunitario” dei paesi d’Oltremanica: nel concreto, i calciatori comunitari saranno dunque costretti ad ottenere il permesso di lavoro per poter essere tesserati (come succede oggi per tutti i calciatori di nazionalità extra-europea, che non possono giovarsi della libertà di circolazione di cui invece godono i calciatori di paesi membri dell’Unione), non sarà più possibile per i club inglesi fare incetta di giovani talentini in giro per l’Europa, e in ultimo “costerà cara” in tutti i sensi la svalutazione della sterlina che depotenzierà i grandi spendaccioni nella terra d’Albione.
Il problema principale per i club, che si concretizzerebbe tra due anni al momento della ratificazione del “leave” inglese dall’UE, è dunque rappresentato dallo status delle centinaia di calciatori europei che calcano i campi d’Oltremanica, oltre 300 stando ad una stima riferita solamente a Premier League, Championship e massima serie scozzese. Solamente in Premier, oltre il 65% dei calciatori tesserati dai club risultano essere stranieri, 180 in termini assoluti: di questi, solamente 23 conseguirebbero agevolmente il permesso di lavoro. Le regole che guidano infatti l’assegnazione dello stesso prevedono infatti che per ricevere il permesso di lavoro il calciatore debba aver disputato, negli ultimi due anni, una percentuale di partite in Nazionale variabile a seconda della posizione nel ranking FIFA della stessa: il 30% per Nazionali incluse nella Top 10, il 45% per le Nazionali dal 11° al 20° posto, 50% per Nazionali dal 21° al 30° posto e così via a salire. Con questa regola, Kantè del Leicester, de Gea dello United, Payet nel West Ham al giorno d’oggi, o Cristiano Ronaldo e Henry tra i calciatori del passato non sarebbero riusciti a strappare il permesso di lavoro. Si capisce come un provvedimento del genere, dovesse effettivamente entrare in vigore nelle prossime stagioni, rappresenterebbe un durissimo colpo per la competitività della Premier League e dei club inglesi, costretti tra l’altro un domani a fare i conti con lo status dei numerosissimi stranieri comunitari in rosa (Arsenal e Manchester United, che risulterebbero le più penalizzate, contano oggi in rosa 13 stranieri dalla Comunità Europea): la speranza britannica, per ammortizzare un shock altrimenti non indifferente, è che il Regno Unito possa trovare con gli organi dell’UE una tipologia di accordo come quelli in vigore con Norvegia o Svizzera rimanendo perlomeno a far parte dello Spazio Economico Europeo, cosa che lascerebbe immutata invece la normativa attualmente vigente con gran sollievo delle parti coinvolte anche sul versante calcistico.
Altro fenomeno che ha caratterizzato negli ultimi decenni la Premier League, è la capacità di ammaliare ed attrarre i giovani talenti stranieri, che già da molto piccoli vengono tesserati nelle varie Academy per poi, una volta maturati, completare il passaggio in prima squadra: è il caso, tra gli altri, di Pogba, Giuseppe Rossi e Cesc Fabregas, “emigrati” dai paesi natali in età ancora verdissima. Ebbene, aldilà dei giovani comunitari tra i 16 e i 18 anni, la normativa FIFA vieta il trasferimento di calciatori minorenni al di fuori dei propri paesi d’origine. In un calcio ormai abituato alle cifre folli indotte dall’ingresso nel football dei vari “Paperoni” del pallone, la capacità di scovare in età sempre più precoce giovani talenti marca spesso e volentieri il “vantaggio competitivo” (magari non immediato) rispetto alla concorrenza: perdere la possibilità di andare a scovare futuri campioncini in giro per l’Europa rappresenterebbe un altro colpo durissimo per la salute e la competitività della Premier (ma, è bene ricordarlo, vale per tutti i Campionati britannici), come fanno vagamente intuire i tre esempi riportati poc’anzi.
In ultimo, uno degli effetti più immediati che il voto di giovedì scorso ha indotto è il crollo del valore della sterlina: se è vero che una moneta meno forte potrebbe far risultare più appetibile il mercato britannico agli investitori stranieri, è vero anche che si tradurrebbe in un costo decisamente più oneroso per tutte le trattative di calciomercato condotte in porto in euro e/o in dollari: il costo dei cartellini dei calciatori stranieri si gonfierebbe pesantemente, e questo penalizzerebbe i club britannici nonostante le sostanziose disponibilità economiche favorendo i club dell’area euro (che, a parità di prezzo, non sarebbero costrette a subire l’aumento di costo dovuto al crollo della valuta), e considerando anche che molti degli ingaggi dei calciatori sono negoziati in euro finirebbe per avere inevitabili conseguenze anche in ottica Fair Play Finanziario.
Non è difficile pensare che, date le innumerovoli ed onerose conseguenze dentro e fuori dal campo che la Brexit implicherebbe (ovviamente, per il Regno Unito che non per l’Unione),che UK ed UE debbano cercare un accordo che equipari la Gran Bretagna a paesi come la Svizzera e la Norvegia; o, perlomeno, è la speranza degli addetti ai lavori di quello che, in un paio di stagioni, rischia di diventare l’ex-Campionato più bello del Mondo.
Michael D’Costa