Amarcord: i derby di Minaudo e Bertoni, eroi per caso
Da quasi sconosciuti alle prime pagine dei giornali, dalla tuta in panchina al boato dei tifosi per qualcosa di inaspettato. Può accadere veramente? Sì, nel calcio accade, nel calcio a volte i gregari si ritagliano la loro fetta di gloria e di notorietà, prima di tornare nella loro dimensione; quanto accaduto a Giuseppe Minaudo e Alessandro Bertoni, però, esula dal comune panchinaro che entra a segna, a loro è andata diversamente, loro hanno stampato i loro nomi nella storia della partita più importante dell’anno a Milano e a Roma: il derby.
Giuseppe Minaudo nel 1986 ha 19 anni, è nato in Sicilia a Mazara del Vallo (TP) il 22 marzo 1967, ma ben presto si è trasferito al nord per giocare nelle giovanili dell’Inter. E’ un calciatore utilissimo ai suoi allenatori, poichè in grado di giocare in più ruoli del centrocampo, è dotato di ottima corsa e di un discreto tiro dalla distanza. L’Inter di metà anni ottanta è una squadra strana, non riesce mai a trovare il guizzo giusto per vincere lo scudetto, ma staziona stabilmente nelle prime posizioni della classifica, dando ai propri tifosi la soddisfazione di arrivare quasi costantemente davanti ai rivali cittadini del Milan che vivono una fase di declino con la doppia retrocessione in serie B ormai alle spalle e la gestione della presidenza di Giussy Farina che sta lasciando il posto all’avvento di Silvio Berlusconi. Il 6 aprile 1986 si gioca Inter-Milan e, nonostante sia un derby leggermente sottotono per via della classifica non eccellente di entrambe le squadre, San Siro è pieno e le due curve non si risparmiano i soliti cori ostili e le solite provocazioni. Silvio Berlusconi è da meno di due mesi il presidente del Milan, quello per lui è il primo derby da patron rossonero, ci terrebbe moltissimo a presentarsi con una vittoria contro l’Inter che ha cambiato l’allenatore dopo l’esonero di Ilario Castagner e l’arrivo in panchina di Mario Corso, ex gloria della Grande Inter degli anni sessanta e ora tecnico della squadra Primavera. La gara non si sblocca, lo 0-0 non sembra potersi schiodare e i cronisti presenti in tribuna stanno già buttando giù i pezzi da mandare in redazione, quando accade l’impensabile: Corso getta nella mischia un ragazzino che conosce bene, Minaudo. E’ all’esordio assoluto in serie A il diciannovenne siciliano, ma poco importa, Corso si fida di lui e lo fa debuttare nella massima serie e nel derby; maglia numero 15, fisico gracilino ma nessun timore di sorta: questo è Giuseppe Minaudo quando entra in campo quel 6 aprile con la gente dello stadio (e quella attaccata alle radioline da casa) che si chiede: “Chi è che è entrato?”. Ma c’è poco da non capire, Minaudo fa in fretta a farsi conoscere: minuto numero 77, punizione dalla sinistra per l’Inter, batte Piero Fanna, Mandorlini salta di testa e colpisce un palo che dà vita ad un breve batti e ribatti in area, risolto proprio dal ragazzino della Primavera interista che anticipa Tassotti e Di Bartolomei (non gente qualunque, insomma) e con un tiro da distanza ravvicinata inchioda la palla sotto la traversa. 1-0 per l’Inter, i compagni di squadra faticano a credere a quanto visto, Minaudo men che meno, non fa neanche in tempo a correre perchè tutta la squadra nerazzurra lo sommerge. Di quell’istante si ricorda il mucchio interista e i pugni stretti di Minaudo. L’Inter vince il derby con l’uomo che non ti aspetti, una partita tutto sommato mediocre e anche meno attesa del solito, non la decide un banale gol dei bomber, bensì il ragazzetto venuto su dal settore giovanile. Dopo la partita, nella sala stampa di San Siro il più felice di tutti è l’avvocato Prisco: per lui battere il Milan è il massimo, in più quel giorno può vantare di averlo fatto grazie ad un prodotto del vivaio interista, una soddisfazione doppia per tutti quelli che a Milano vivono a pane e rivalità. Minaudo è quasi spaesato, neanche si rende conto di ciò che ha fatto, non ha capito che il suo nome, a prescindere da quanto continuerà a fare o a non fare, rimarrà stampato indelebilmente nella storia dei derby. La carriera di Giuseppe Minaudo all’Inter si è esaurita presto e senza la gloria che quel gol aveva stuzzicato in molti; il centrocampista giocherà in serie A con Ancona, Atalanta e Torino, e in B con Udinese e Piacenza (dove vincerà il campionato nella stagione 1994-95), chiudendo poi la sua vita calcistica in serie C ad Andria (altro campionato vinto nel 1997), Cremona, Castellammare di Stabia e Novara, prima di disputare le ultime due stagioni fra i dilettanti con le maglie di Senigallia e Ghisalbese. Oggi vive a due passi da Lecco e lavora in una società di mutui, lontano dal calcio, lontano da quei riflettori che per un giorno lo hanno reso l’uomo più importante di Milano.
Diversa la storia di Alessandro Bertoni, attaccante nato a Reggio Emilia il 15 marzo 1959, ed approdato alla Lazio nell’estate del 1989 per far da riserva ai titolari Amarildo e Ruben Sosa, la coppia gol sudamericana che il presidente laziale Calleri ha messo a disposizione del tecnico Giuseppe Materazzi. Ha già trent’anni Bertoni, è un attaccante, ma non uno di quelli che sfonda porte ogni partita, lui fa movimento, lavora per la squadra e di gol non ne fa moltissimi; la Lazio lo ha prelevato dall’Avellino dove in quattro stagioni ha segnato 8 reti. Il 19 novembre 1989 si gioca il derby Roma-Lazio e si gioca nello stadio Flaminio che per il campionato 1989-90 ospita le gare delle squadre romane perchè l’Olimpico è in ristrutturazione in vista dei campionati del mondo di Italia ’90. Il piccolo impianto capitolino (25 mila posti) è un catino infernale quella domenica, c’è il derby e la corsa al biglietto è stata una gazzarra, soprattutto per i tifosi della Lazio, la compagine in “trasferta” e che ha a disposizione solo i tagliandi della Curva Nord e qualche altro posto sparso in tribuna. Le due squadre non attraversano un buon momento, la Roma è in corsa per la Coppa Uefa ma i tifosi vogliono di più, la Lazio, tornata in serie A l’anno precedente, punta all’Europa con una campagna acquisti di buon livello, ma i risultati non stanno arrivando come Calleri e Materazzi speravano. Clima dimesso, dunque? Neanche per sogno, perchè le due tifoserie non fanno mancare appoggio, calore e i soliti sfottò reciproci; i sostenitori della Roma ricordano gli 11 anni che la Lazio ha trascorso in serie B, i biancocelesti rispondono per le rime facendo riferimento al gol con cui Paolo Di Canio, giovane prodotto delle giovanili laziali, ha steso i giallorossi nel derby dell’anno prima, correndo poi ad esultare sotto la Curva Sud come Giorgio Chinaglia più di un decennio prima. La partita, nonostante il tono all’apparenza più basso, è maschia e vibrante, poca qualità ma molta corsa, contrasti rudi e tanto agonismo; Materazzi vuole vincerla e schiera dal primo minuto Alessandro Bertoni, maglia numero 10, che di solito è in panchina, accanto ad Amarildo e Sosa, preferendo il riccioluto attaccante emiliano all’argentino Troglio in sostituzione di Sclosa. All’inizio della ripresa la Lazio resta pure in inferiorità numerica perchè Amarildo, centravanti religiosissimo, appartenente agli Atleti di Cristo, associazione di atleti cristiani evengelici osservanti e che è solito regalare una Bibbia al suo diretto marcatore prima delle partite, decide di recitare la parabola della pecorella smarrita e rifila una violenta testata a Lionello Manfredonia, ex di turno, fischiatissimo dai laziali: Lazio in 10 e addio sogni di gloria. E invece no, perchè al 64′ Ruben Sosa dà sfoggio del suo talento e della sua velcità scappando via alla difesa romanista e involandosi verso la porta di Giovanni Cervone che, alla disperata, gli frana addosso; la palla nel contrasto schizza verso l’area piccola dove è appostato Bertoni che ha seguito l’azione e spinge la sfera in rete per il più comodo dei gol. Il Flaminio esplode, l’ex attaccante dell’Avellino, al primo centro in campionato, alza le braccia al cielo ed esulta quasi all’interno della porta: la Lazio è in vantaggio nonostante l’inferiorità numerica e a segnare è stato l’uomo meno atteso, non gli attaccanti sudamericani, idoli della curva laziale, non Paolo Di Canio che è egli stesso un sostenitore biancoceleste, ma il gregario Bertoni, uno che non ha neanche la faccia da divo con i capelli ricci alla Ninetto Davoli e il carattere riservato, uno che di gol ne fa pure sempre pochini. La Roma pareggerà nel finale grazie a Giuseppe Giannini, lui sì protagonista di primo piano alla vigilia del derby; pazienza, la Lazio esce delusa da una partita che stava vincendo ad una manciata di minuti dal termine e con un uomo in meno, Bertoni esce dal campo fra gli applausi dei sostenitori laziali che lo eleggono nuovo idolo della curva, perchè uno che fa gol alla Roma in un derby merita di essere ricordato per sempre, in ogni caso. Alessandro Bertoni segnerà un’altra rete in quella stagione, il 25 marzo del 1990 nel 2-2 fra Genoa e Lazio, lasciando Roma nell’estate del 1991 senza altri acuti all’attivo e chiudendo la carriera nel 1993 dopo essere tornato a giocare in Emilia, prima nella Reggiana in serie B e poi nel Carpi in serie C. Nella Lazio che ha vinto tutto a cavallo fra la fine degli anni novanta e l’inizio dei duemila ci sarebbe stato poco spazio per un gregario come Bertoni, ricordato però con affetto e riconoscenza dai tifosi biancocelesti, invitato a manifestazioni e ritrovi della tifoseria e dei club laziali, per parlare di quel giorno che lo ha reso famoso. Oggi Alessandro Bertoni lavora coi bambini in varie società calcistiche satelliti della Reggiana.
Due storie all’apparenza diverse, due personaggi opposti, il ragazzino che debutta nel derby e fa gol, il panchinaro a fine carriera che sblocca la stracittadina di Roma nel tripudio di una Lazio non ricca ma agguerrita, eppure le storie di Minaudo e Bertoni si assomigliano, perchè i loro nomi ancora oggi vengono pronunciati con dolcezza e fierezza dai tifosi interisti e laziali, nonostante siano stati gli unici attimi di gloria dei due calciatori nelle rispettive squadre e nonostante una carriera non irresistibile che ha accomunato entrambi. Minaudo e Bertoni, eroi per caso, eroi per una volta sola, ma sufficiente per conservare un posto nel museo dei derby.
di Marco Milan