Populismo e nazionalismo: Unione europea e Stati Uniti alla resa dei conti
Il biennio 2016-2017 è ricco di appuntamenti elettorali che rischiano di decretare la fine dell’integrazione europea e la crisi della prima democrazia al mondo
L’Europa di oggi appare “disarticolata e inefficace” e un’Europa degli stati-nazione sarebbe ad essa preferibile. É la conclusione alla quale giunge Jakub Grygiel in un articolo apparso su Foreign Affairs e dal quale è possibile trarre spunto per un’analisi sulla crisi dell’UE, non un fenomeno a sé ma sintomatologico di una crisi più generale, quella delle liberal-democrazie, che ha colpito in primis gli Stati Uniti, dove le primarie prima e le presidenziali ora confermano empiricamente la vitalità della “post-truth politics” ossia la pratica di distorcere la realtà al fine di ottenere consensi (la Brexit in Europa ne è un esempio lampante).
Anche il progetto comunitario europeo è dinanzi a problemi politici interni gravi, dalla Brexit al populismo e nazionalismo anti-europeo, al combinato disposto di crisi bancarie ed emergenze migratorie. In Europa, la crisi del principio di solidarietà tra gli Stati membri rischia di minare l’assetto politico e istituzionale in maniera definitiva. Il nazionalismo e il populismo sono sempre più vivi nel mondo intero e il fallimento dell’UE, tra ipotesi di uscita dall’euro, i dubbi sul mercato unico, gli attacchi alla globalizzazione ne rappresenterebbe l’epilogo, tra alleanze eterogenee di forze di destra e di sinistra e movimenti “liquidi” o trasversali come il M5s in Italia.
Nell’opera Twenty-First Century Populism: The Spectre of Western European Democracy, Daniele Albertazzi e Duncan McDonnell definiscono il populismo “una ideologia secondo la quale al “popolo” (concepito come virtuoso e omogeneo) si contrappongono delle “élite” e una serie di nemici che attentano ai diritti, i valori, i beni, l’identità e la possibilità di esprimersi del “popolo sovrano“.
Così su Wikipedia, il populismo ha un’altra accezione che lo rende un “contenitore” per movimenti politici di svariato tipo (di destra come di sinistra, reazionari e progressisti, e via dicendo) che abbiano però in comune alcuni elementi per quanto riguarda la retorica utilizzata. Per esempio, essi attaccano le oligarchie politiche ed economiche ed esaltano le virtù naturali del popolo (anch’esso mai definito con precisione, e forse entità indefinibile), quali la saggezza, l’operosità e la pazienza. Il populismo guadagna perciò consensi nei momenti di crisi della fiducia nella “classe politica”.
L’Unione europea di oggi è un’Europa priva di solidarismo e audacia. Vi prevalgono paura, pavidità ed egoismo e tutto a vantaggio dell’euro-scetticismo imperante. Qualcuno parla di “contagio del populismo”, un morbo che “si nutre del rigetto dei leader e delle paure della globalizzazione, dell’immigrazione, d’un Islam sempre più visibile”. E gli appuntamenti elettorali, che dal referendum sulla Brexit del giugno scorso alle politiche in Germania a settembre 2017 vedranno l’Europa al centro dell’attenzione delle cancellerie mondiali, lo confermano.
Gli eventi luce della crisi
Dagli Stati Uniti alla Germania, il 2016 -2017 è un biennio “pericoloso” per il sistema politico tradizionale poiché si aggira un fantasma che evoca avvenimenti di un passato neppure lontanissimo anche in Paesi sinora simbolo di democrazia sociale e solidale come quelli nordici.
Il calendario parla chiaro: il 23 giugno 2016 il Regno Unito ha votato a favore dell’uscita dall’UE con il 51,9% dei voti; il 2 ottobre scorso in Ungheria, i magiari hanno votato sulla ripartizione di quote di profughi e migranti decisa a Bruxelles nel 2015 e seppur il referendum non ha raggiunto il quorum, il 98% di chi ha votato lo ha fatto contro il sistema di quote; l’8 novembre 2016 si vota negli Stati Uniti per eleggere il prossimo inquilino della Casa Bianca e la scelta è tra un populista razzista e misogino e una candidata sotto accusa per uno scandalo email che può costarle la presidenza. Il 4 dicembre si vota in Austria per il ballottaggio delle presidenziali: i candidati sono un indipendente sostenuto dai Verdi e un populista Hofer, favorito. In Olanda si vota il 15 marzo 2017 per le politiche: in vantaggio nei sondaggi è il Partito delle libertà di Geert Wilders, favorevole all’uscita dalla UE. In Francia, si voterà il 23 aprile e il 7 maggio 2017. Marine Le Pen è prima nei sondaggi. Infine, appuntamento elettorale anche in Germania (le date delle elezioni politiche sono ancora da definirsi, forse settembre) dove Angela Merkel e gli alleato del SPD dovranno vedersela con i populisti dell’AFD (Alternativa per la Germania) partito di destra, euroscettico e anti-immigrati.
Monca della sua sponda inglese (dopo lo shock Brexit che priva l’UE di un attore importante sul piano internazionale e aggiunge incertezza), l’UE è sopravvissuta – non senza ferite dalle quali si sta ancora riprendendo – al referendum magiaro dello scorso ottobre. Fortunatamente non si è raggiunto il quorum quindi il voto non è valido ma si è trattato comunque di un colpo importante al principio di solidarietà tanto caro alla Commissione europea. Il governo ultranazionalista di Orban aveva portato avanti una campagna ostile al sistema di quote deciso lo scorso anno da Bruxelles poiché “ridisegnerebbe l’identità etnica, culturale, religiosa del paese”. Sembrava si trattasse di un’invasione mentre in realtà a Budapest si chiedeva di accogliere 1300 profughi su un totale di 10 milioni di abitanti. E da qui l’inizio di una campagna anti immigrati, l’invio alle frontiere di 10 mila soldati e l’erezione di un muro di filo spinato lungo 175 chilometri al confine con la Serbia.
Gli appuntamenti elettorali nei Paesi dell’Europa
L’ondata populista potrebbe travolgere anche l’Austria dove il 4 dicembre si vota al ballottaggio per le presidenziali. Il presidente della Camera Hofer, esponente di quel Partito della Libertà che fu di Georg Heider, iniziatore del populismo europeo negli anni ‘90 ha maggiori riscontri nei sondaggi rispetto al suo competitor, l’economista verde Van Der Bellen. Questo perché dopo gli attentati in Francia e in Germania, il suo programma basato su più sicurezza e meno immigrazione ha avuto un nuovo impulso.
Se il populismo di destra si manifesta con chiarezza negli Stati Uniti (Trump) e in Francia (Marine Le Pen) e quello di sinistra è ben rappresentato in Spagna da Podemos di Pablo Iglesias, dal laburista Corbyn nel Regno Unito e da Sanders negli Stati Uniti, in Italia abbiamo una situazione poco cristallina.
Alessandro Giglioli su L’Espresso parla di politica italiana “liquida” per descrivere quella caratteristica tutta italica di avere tratti di populismo attribuibili trasversalmente a politici di ogni schieramento: da Grillo a Salvini, da Berlusconi a Renzi. Questo se per populismo si intende, e citiamo la definizione spregiativa che ci fornisce il dizionario Garzanti, “l’atteggiamento politico demagogico che ha come unico scopo quello di accattivarsi il favore della gente”. Se invece, per populismo intendiamo la tendenza, oggi attualissima, di canalizzare verso chiunque non faccia parte dell’establishment, il voto dell’ex ceto medio ora impoverito che per decenni ha votato centro-sinistra e centro-destra, abbiamo una situazione più complessa. All’estero abbiamo voti convogliati verso forze politiche e partitiche eterodosse ma comunque inquadrabili ideologicamente a destra (Trump, Le Pen, Farage, Orban, Hofer, Petry) o a sinistra (Syriza, Podemos, Corbyn, Sanders, il Partito Pirata in Islanda, quest’ultimo sconfitto alle elezioni politiche anticipate dello scorso 29 ottobre). In Italia il dissidente di destra e di sinistra vota e sostiene il Movimento 5 stelle che si definisce “né di destra e né di sinistra”. Una situazione precaria tanto che è difficile capire dove, senza Grillo, si convoglierebbe il voto di chi contesta l’élite. Il fatto di rappresentare il “dissenso populista” può però ripercuotersi negativamente sul M5s. La sua ambivalenza potrebbe danneggiarlo nel momento in cui, salito al Governo, il Movimento sia chiamato a prendere decisioni che lo definiscono politicamente.
Continuando la rassegna degli appuntamenti elettorali, in Olanda si vota il 15 marzo 2017, dove si teme la vittoria del Partito della Libertà di Geert Wilders, alleato in Europa di Marine Le Pen e sostenitore dell’ipotesi di un referendum per l’uscita dell’Olanda dall’Ue.
Dopo un mese, le presidenziali francesi catalizzeranno l’attenzione dell’Europa e non solo. Il sistema elettorale francese prevede il doppio turno (23 aprile e 7 maggio 2017) e al primo turno i sondaggi danno per favorita Marine Le Pen anche se il doppio turno solitamente favorisce le alleanze. I francesi tirano in ballo l’ex presidente francese Sarkozy per contrastare l’avanzata populista del Front National, il quale ha raccolto l’invito ed è tornato in campo contro la destra della Le Pen: “Una delle ragioni per cui sono tornato in politica è che si era lasciato al Fn il monopolio dell’opposizione alla politica di Hollande”.
Infine, la Germania. Se da un lato l’economia teutonica vola trainata da un export favorito dai tassi di interesse negativi fissati dalla politica monetaria della BCE di Mario Draghi dall’altro, la decisione dell’agosto 2015 di aprire i propri confini ai migranti provenienti dall’Ungheria si è rivolta contro la Merkel e il suo partito CDU che alle elezioni in Meclemburgo-Pomerania dello scorso settembre è stata pesantemente sconfitta dai populisti di destra dell’Afd (Alternativa per la Germania). Un calo eclatante nei consensi: il partito della Cancelliera ha ottenuto il 19,0% dei voti, contro il 20,8% dei populisti di destra anti-migranti dell’Afd (successo poi ridimensionato dall’esito delle comunali in Bassa Sassonia) e il 30,6% dei voti del partito socialdemocratico. Merkel è colpevole di una “catastrofica politica sull’immigrazione”, ha dichiarato Frauke Petry, leader dell’Afd, che auspica “la chiusura dei confini per questa immigrazione illegale”.
Il test elettorale in Meclemburgo è il primo di cinque che si svolgeranno in vista delle elezioni politiche del settembre 2017. Da un punto di vista numerico, il risultato è poco rilevante: il land è il terzo meno popolato della Germania e gli elettori sono poco più di un milione ma il risultato certamente accresce le inquietudini interne al partito e in Europa.
Per fermare l’ondata euro-scettica mancano in Europa capacità di leadership e solidarietà. I populisti sfruttano la paura degli immigrati dimenticando, consciamente o meno, che l’Ue ha bisogno di immigrazione, sia da un punto di vista demografico (nel 2015, nei 28 paesi dell’Unione, la popolazione è cresciuta passando da 508,3 a 510,1 milioni ma ciò, evidenzia Eurostat, è avvenuto solo grazie agli immigrati poiché tra i residenti le nascite sono state inferiori alle morti) sia produttivo: secondo il Fondo Monetario Internazionale, le migrazioni attuali nel 2017 contribuiranno con lo 0,13 % al tasso di crescita del PIL delle 28 nazioni dell’Unione Europa.
(di Alessandra Esposito)