Giorno 5 – Vorrei…

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Caro diario,

quando guardo il cielo non vedo il riflesso del mare blu profondo, ma la vastità delle nostre esistenze. Oltre quelle strane nuvole di zucchero filato che non mi stanco di fotografare, ci ritrovo l’inconcepibile ed incondizionata voglia di aver fede. Una fede incontrastabilmente terrena e crudele, quella che spezza il fiato e che tuttavia, dispensa amore profondo e vitalità. Oggi, imprigionata da labirintici e claustrofobici pensieri, effimeri ma pesanti come macigni, cercavo di librarmi leggera come una farfalla, desiderando, incessantemente, il fiore più profumato dove posarmi. Ci vuole tanto coraggio a scrutare l’anima altrui, senza invaderne l’essenza o sabotarne i colori. Occorre estrema cautela, quando si decide di esplorare il cuore, fragile come un cristallo, di chi conduce senza tregua, la propria rivoluzione umana. Ed è certo che tra gli ingredienti essenziali per condurre un’esistenza a misura delle proprie aspirazioni, occorre interrogarsi costantemente sul proprio ruolo nel mondo. Domandarsi se esista realmente, una ragione alla base delle più intime convinzioni o se sia al contrario, tutto quanto già scritto. Avrei voluto fotografare l’entusiasmo di quella bambina dai riccioli dorati intenta a spingersi su quell’altalena, nel parco desolato della città rumorosa; avrei voluto custodire sino ad appropriarmene, del profumo di buono e di lavanda che quel ragazzo dagli occhi tristi emanava, senza accorgersene. Avrei voluto riascoltare, senza alcuna tregua, la voce calda di mia madre quando, intenta nel proferire il consiglio migliore, recepiva soltanto la mia indifferenza. Stupidamente, avrei voluto essere altrove, ma quell’altrove non esiste se non si riesce a far pace con se stessi e con le proprie paure.

Fuggire serve a poco se si scappa da un demone invisibile che in fin dei conti assume l’odore e i contorni della propria pelle. Vorrei vivere una vita lontana da personalismi e dalla certezza di potermi bastare, senza il supporto costante delle mie fragilità. Vorrei ringraziare la vita e le fisiologiche avversità che consentono di dimostrare, a volto scoperto, il merito di essere sopravvissuti alla tempesta. Secondo la filosofia buddista, quella legata alla figura di Nichiren Daishonin, il mondo in cui viviamo è denominato “saha” che significa sopportazione. Per tal ragione il Budda è definito: “Colui che sa sopportare”. Il concetto di sopportazione connesso a quello di gratitudine verso la realtà esterna, consente di essere grati alle multiformi peculiarità attraverso cui la vita, con la sua crudezza, si manifesta. La gratitudine, soprattutto verso i momenti più avversi, è il trampolino che aiuta ad andar oltre il nostro piccolo io ed i perimetri claustrofobici del nostro interesse egoistico.
E nel marasma di una vita frenetica che sottrae al nostro tempo attimi di smisurata bellezza, vorrei essere in grado di contemplare il tramonto ogni giorno, alla stessa ora, con la stessa curiosità e la stessa meraviglia.

C’è un legame profondo, ma impercettibile, che connette la mia storia a quella di tanti altri. Esso si manifesta, quasi magicamente, ogni qualvolta si percepisce l’esigenza di andar oltre l’apparente e di ricercare nelle frastagliate ed infauste profondità dell’anima, la ragione e la missione che ci legano a questo mondo. Siamo come nodi attorcigliati, come matasse da sbrogliare, come reti attraverso cui pescare in mare aperto. Siamo girasoli rivolti alla luce, ma anche fiori di loto che, nonostante il fango e la palude, sopravvivono all’oscurità.

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